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BCE, annunciato l’aumento dei tassi di interesse

Analizziamo insieme il percorso che ha portato all’aumento dei tassi di interesse, quali sono le motivazioni collegate a tale scelta e le sfide per il futuro.


“Tanto tuonò che piovve”. Nel corso della conferenza stampa che segue l’ultima riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale Europea (Bce) dello scorso 8 giugno, sono state prese importanti decisioni di politica monetaria: su tutte, dopo più di dieci anni, l’aumento dei tassi di interesse. 

Riprendendo il comunicato stampa rilasciato dalla Bce lo scorso 9 giugno, «[…] il Consiglio direttivo ha esaminato attentamente le condizioni che, secondo le sue indicazioni prospettiche (forward guidance), devono essere soddisfatte prima di iniziare a innalzare i tassi di interesse di riferimento della Bce. A seguito di questa valutazione, il Consiglio direttivo ha concluso che tali condizioni sono rispettate.

Pertanto, in linea con la sequenza delle sue misure di politica monetaria, il Consiglio direttivo intende innalzare i tassi di interesse di riferimento della Bce di 25 punti base con la riunione di politica monetaria di luglio. Nel frattempo, esso ha deciso che i tassi di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali, sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi presso la banca centrale rimarranno invariati rispettivamente allo 0,00 per cento, allo 0,25 per cento e al -0,50 per cento […]» 

Questa decisione rappresenta il punto di caduta di un periodo di attenta analisi del contesto macroeconomico e di una necessaria revisione delle posizioni precedentemente assunte. 

Infatti, ripercorrendo brevemente gli ultimi 3 trimestri, possiamo notare come la Presidente Lagarde, nel corso del quarto trimestre del 2021, aveva più volte manifestato il suo essere una forte sostenitrice della transitorietà del fenomeno inflazionistico, per cui la possibilità di intervenire con una manovra di politica monetaria atta a incrementare i tassi di interesse di riferimento non era minimamente presa in considerazione. 

Nel primo trimestre del 2022, abbiamo iniziato ad assistere ai primi leggeri cambi di rotta. Un primo punto di svolta è stato senz’altro il Bollettino economico Bce, n. 1 – 2022 diffuso lo scorso 17 febbraio, in cui veniva riconosciuto che «[…] è probabile che l’inflazione resti elevata più a lungo rispetto alle precedenti attese, per poi ridursi nel corso del prossimo anno […]», aprendo quindi a una lettura “persistent” del fenomeno inflazionistico, ossia una possibile revisione della strategia di politica economica intrapresa.

Un’ulteriore apertura sul tema era stata mostrata dalla Presidente Lagarde nel corso della conferenza “The ECB and Its Watchers XXII” dello scorso marzo, in cui asserì che «[…] tutte le nostre decisioni di politica monetaria nei prossimi mesi saranno necessariamente informate dalle ricadute economiche della guerra e dipenderanno dai dati […]».

Al fine di raggiungere l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione pari al 2 per cento all’anno nel medio termine), in un contesto macroeconomico sottoposto a una sempre più intensa pressione inflazionistica, la Bce, nel corso dell’ultimo Consiglio direttivo, ha deciso la conclusione degli acquisti netti di attività nel quadro dell’Asset Purchase Programme (APP) a partire dal 1° luglio 2022 e, rivedendo in modo netto la posizione assunta sul finire del 2021, ha formalmente deciso che a luglio aumenterà di 25 punti base i tassi d’interesse dell’Eurosistema.

È stato inoltre preannunciato un possibile ulteriore aumento a settembre, la cui calibrazione dipenderà dalle prospettive aggiornate per l’inflazione a medio termine. Se le prospettive rimarranno tali o si deterioreranno, nella riunione di settembre si valuterà la possibilità di un ulteriore incremento.

Perché aumentare i tassi di interesse di riferimento?

Nello scorso mese di maggio si è assistito a una ripresa significativa dell’aumento dell’inflazione, le cui cause vanno sicuramente ricercate principalmente nei rincari dei beni energetici e alimentari. Va sottolineato come l’intensificarsi del fenomeno inflazionistico ha obbligato gli esperti dell’Eurosistema a rivedere in modo netto lo scenario di base delle proiezioni sull’inflazione. 

Come si può evincere dalle analisi rappresentate all’interno del Bollettino economico Bce, n. 4 – 2022, gli esperti hanno rivisto al rialzo le proprie stime rispetto a quelle fornite nel Bollettino economico Bce, n. 2 – 2022 (le “precedenti stime”).

Nello specifico, le nuove proiezioni macroeconomiche formulate dagli esperti prevedono, in media, un tasso annuo di inflazione del 6,8 per cento nel 2022 (+1,7 per cento rispetto alle precedenti stime), che si ridurrebbe al 3,5 per cento nel 2023 (+1,4 per cento rispetto alle precedenti stime) e al 2,1 per cento nel 2024 (+0,2 per cento rispetto alle precedenti stime). Stante queste stime, alla fine dell’orizzonte di analisi, l’inflazione si attesterebbe leggermente sopra l’obiettivo del 2 per cento.

Volendo scendere a un livello più granulare dell’analisi, valutando l’andamento dell’inflazione al netto dei beni energetici e alimentari, possiamo notare come anche in questo caso gli esperti abbiano rivisto al rialzo le proprie stime. Si prevede infatti, in media, un tasso annuo di inflazione del 3,3 per cento nel 2022 (+0,7 per cento rispetto alle precedenti stime), che si ridurrebbe al 2,8 per cento nel 2023 (+1,0 per cento rispetto alle precedenti stime) e al 2,3 per cento nel 2024 (+0,4 per cento rispetto alle precedenti stime).

Queste stime ci confermano come la Bce preveda che la moderazione dei costi dell’energia, l’attenuarsi delle turbative dell’offerta connesse alla pandemia e la normalizzazione della politica monetaria dovrebbero determinare un calo dell’inflazione nell’orizzonte di analisi. Ora entrambe le sponde dell’oceano atlantico percorrono la via dell’aumento dei tassi di interesse, seppur con livelli di “aggressività” molto differenti.  

Mentre la Bce è al suo primo intervento di politica monetaria, la Fed, dal canto suo, è già al suo quarto aumento dall’inizio dell’anno. Nello specifico, dopo aver incrementato il saggio di riferimento di 25 punti base nei mesi di gennaio e marzo, a maggio ha deciso di accelerare con la stretta monetaria, incrementando quest’ultimo di altri 50 punti base. Infine, lo scorso 15 giugno, ha deciso di accelerare ulteriormente aumentando i tassi di interesse di altri 75 punti base. Il saggio di riferimento statunitense è ora fissato in un intervallo compreso tra l’1,5 e l’1,75 per cento. 

I due differenti approcci sono determinati principalmente dal fatto che i due fenomeni inflazionistici sono molto differenti tra loro. In Europa l’inflazione deriva principalmente dall’inasprimento dei costi dall’energia e dalle difficoltà legate alla supply chain, mentre negli Stati Uniti il fenomeno inflazionistico poggia principalmente su una combinazione di rialzo dei prezzi da domanda e da offerta.

Pertanto, la Fed può decidere di intraprendere azioni di politica monetaria molto aggressiva al fine di influenzare l’inflazione da domanda per controllare così la spirale inflazionistica. Dal canto suo la Bce è molto più attenta e cauta, perché sa benissimo che una politica monetaria aggressiva sarebbe molto controproducente all’interno dell’eurozona; Trichet docet.

Va inoltre sottolineato come le misure di politica monetaria assunte nel corso dell’ultimo Consiglio direttivo da parte della Bce hanno come obiettivo anche quello di dar seguito al percorso di “normalizzazione” della politica monetaria iniziato lo scorso dicembre, quando fu annunciata, per la fine di marzo 2022, la cessazione del programma di acquisto titoli lanciato allo scoppio della pandemia, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP).

Infatti, riprendendo il discorso tenuto lo scorso maggio da Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce, alla Goethe University di Francoforte, «[…] la normalizzazione si verifica quando una banca centrale aggiusta i suoi parametri per cementificare il percorso di inflazione verso l’obiettivo […]». 

In ottemperanza a uno dei tre principi che guidano la strategia della Bce, la gradualità, sarebbe un errore agire in modo netto. I livelli dei consumi e degli investimenti non si attestano ancora a quelli pre-pandemici e il conflitto Russo-Ucraino ha acuito l’inflazione, obbligando severe riflessioni anche sulla catena di approvvigionamento. 

Riprendendo ancora Panetta, serve appunto «[…] un graduale ritiro del sostegno economico, cosicché lo stimolo si riduca nel tempo e non scompaia improvvisamente». La gradualità, sempre secondo Panetta, «è appropriata per calibrare il ritiro degli stimoli poiché è anche necessario ricevere feedback dall’economia stessa per via della natura inedita degli shock che stiamo vivendo e della mancanza di affidabili punti di riferimento[…]».

Una tale impostazione trova i suoi riscontri pratici nelle decisioni appena prese dalla Bce, la quale ha formalmente deciso di voler eseguire solamente due incrementi dei tassi d’interesse, nei mesi di luglio e settembre, sancendo così l’uscita dal territorio dei tassi negativi, che da moltissimi anni è una prerogativa del contesto bancario europeo.

Le prossime sfide

Alla luce delle decisioni intraprese dal Consiglio direttivo della Bce dello scorso 9 giugno, che di fatto mettono la parola fine all’era dei tassi zero, i mercati azionari europei hanno immediatamente mostrato i propri timori. Stessa reazione avversa si è manifestata nei rendimenti dei titoli di Stato e nell’andamento dello spread, con il BTp-Bund a 10 anni che ha toccato soglia 253 punti lo scorso 14 giugno.  

È parere condiviso che tali reazioni negative siano da ascriversi alla delusione da parte di chi si aspettava che, oltre a confermare la conclusione degli acquisti netti di attività nel quadro dell’APP e l’aumento dei tassi di interesse di riferimento, la Bce si presentasse con già un piano ben definito per limitare la frammentazione finanziaria contenendo gli spread dei Paesi periferici. 

Pertanto, sotto la pressione dei mercati, il Consiglio direttivo della BCE è tornato a pronunciarsi il 15 giugno, appena sei giorni dopo, formalizzando che «[…] adotterà flessibilità nel reinvestire il capitale rimborsato sui titoli in scadenza del portafoglio del PEPP, al fine di preservare il funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria, presupposto fondamentale affinché la BCE possa adempiere il suo mandato di mantenere la stabilità dei prezzi. Inoltre, il Consiglio direttivo ha deciso di incaricare i comitati dell’Eurosistema competenti e i servizi della BCE affinché si acceleri il completamento della progettazione di un nuovo strumento di contrasto alla frammentazione da sottoporre all’esame del Consiglio direttivo[…]».

L’utilizzo di un adeguato “scudo anti spread” sarebbe utile per evitare che l’inversione di tendenza della politica monetaria voluta dalla Bce colpisca in modo eccessivamente severo i Paesi più indebitati, tra cui non possiamo non citare l’Italia. 

Va anche detto che l’inasprimento dello spread può essere ascrivibile anche a speculazioni che non trovano un riscontro diretto dell’indebitamento del Paese, seppur particolarmente elevato. È stato così nella crisi del 2012, quando si arrivò a mettere in dubbio la sopravvivenza dell’euro con l’uscita dei Paesi più in difficoltà, fra cui l’Italia. In quel contesto, la Bce intervenne con il famoso “whatever it takes”, pronunciato dall’allora Presidente Mario Draghi, col quale, in estrema sintesi, l’istituto di Francoforte si impegnava a intervenire sul mercato dei titoli di singoli Paesi per calmierare gli spread.

Lo strumento individuato per un tale intervento erano le “Outright Monetary Transactions” (OMT), acquisti condizionati da speciali impegni che il Paese beneficiario dello scudo avrebbe dovuto prendere in accordo col Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) che ne avrebbe sorvegliata l’applicazione. Non si dovette mai ricorrere alle OMT, in quanto fu sufficiente la credibilità dell’annuncio per frenare la speculazione e ricondurre gli spread a misure non esasperate e compatibili con le differenze nei fondamentali dei Paesi e col loro grado di indebitamento. 

Purtroppo l’annuncio dello scorso 15 giugno non ha avuto la stessa credibilità. La Presidente Lagarde non ha menzionato le OMT e, parlando dello scudo anti spread, si è limitata a dire che è attualmente allo studio e che è diretto a “combattere i rischi di frammentazione dell’eurozona” per “preservare il funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria”. 

Troppo poco, troppo astratto per convincere i mercati i quali, dopo una prima reazione positiva, sono tornati in uno stato di grande incertezza. Tuttavia, va segnalato che lo spread BTp-Bund a 10 anni, a seguito dell’ultima pronuncia del Consiglio direttivo, è rientrato rapidamente sotto la soglia dei 210 punti, frutto anche dello stato di tensione dei tassi tedeschi che risentono dell’andamento dei tassi statunitensi.

In attesa che i contorni sfumati dello scudo anti spread vengano meglio definiti, è parere di chi scrive che l’obiettivo della normalizzazione degli spread non potrà mai essere raggiunto in modo adeguato fintanto non sarà vinta la sfida più grande che da anni tiene banco: il completamento dell’Unione bancaria e dei mercati dei capitali europei, che è la miglior soluzione per risolvere il problema della frammentazione finanziaria, vera spada di Damocle dell’eurozona.


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