Cloe Bianco, vittima di transfobia

Il caso di Cloe Bianco, l’insegnante transgender che si è tolta la vita, porta alla luce problematiche e discriminazioni che la comunità LGBTQ+ in Italia deve affrontare ogni giorno.


Giugno è il mese del Pride, dell’orgoglio della comunità LGBTQ+ che si riunisce per poter protestare e chiedere il riconoscimento dei propri diritti. Diritti che ancora vengono negati e che fanno piazzare l’Italia agli ultimi posti della classifica stilata dall’ILGA (International Lesbian and Gay Association) sullo stato di salute delle persone queer nel mondo. 

Tra i tanti episodi di discriminazione, ha fatto molto discutere la storia di Cloe Bianco, insegnante transgender che si è tolta la vita l’11 giugno in provincia di Belluno.

Cloe Bianco si è suicidata – questo si legge dal suo ultimo post pubblicato nel suo blog PERsone TRANSgenere – ma basta soffermarsi sulle sue parole e ripercorrere la sua storia per prendere consapevolezza del fatto che si può parlare anche di omicidio, a causa dei molteplici episodi di discriminazione subiti negli ultimi anni.

Infatti, Cloe Bianco nel 2015 aveva finalmente deciso di presentarsi come donna a scuola, quando era diventata da poco insegnante di ruolo. Dopo averne parlato con il preside, era entrata in classe con abiti femminili e una parrucca, per poter vivere la sua vera identità liberamente.

Il suo coming out era stato aspramente criticato dai colleghi e dai genitori degli alunni. La vicepreside della scuola nel bellunese aveva chiesto all’insegnante di presentarsi in abiti più sobri e un genitore aveva scritto una lettera all’assessora all’Istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, con l’intento di chiedere dei provvedimenti a riguardo.

L’assessora aveva prontamente pubblicato la lettera sul suo profilo Facebook, scrivendo che «quello che è accaduto è grave».

Ciò che in realtà va considerato molto grave è il trattamento subito da Cloe Bianco, sospesa per tre giorni e, presentato ricorso al Tribunale del lavoro, il giudice non ritenne ingiusta la sospensione. 

Secondo il giudice, l’insegnante avrebbe dovuto preparare meglio la classe prima del suo coming out, come se un coming out fosse qualcosa di increscioso e, presentarsi liberamente ai propri studenti per quello che si è, disturbante e inappropriato.

Ciò che però non è stato preso in considerazione, né dal tribunale né dall’istituto dove Cloe insegnava, è che la conoscenza e la preparazione sulle questioni di genere sono tematiche che dovrebbero essere affrontate in aula non da una singola persona, ma attraverso l’inserimento dell’educazione sessuale nelle scuole, purtroppo ancora oggi demonizzata da molti insegnanti e genitori.

Una sua ex alunna ha dichiarato che Cloe Bianco aveva spiegato pacatamente i motivi del suo coming out davanti a tutti i suoi studenti. Chi le voltò le spalle fu proprio il corpo docenti, più preoccupati della reputazione della scuola che della salute di una loro collega. 

Anche i genitori iniziarono a fare la fila ai colloqui soltanto per potere deriderla e prenderla in giro, mettendo in atto veri e propri attacchi transfobici. Infine, Cloe Bianco fu demansionata, allontanata dalle classi e dal proprio ruolo di docente, relegata al ruolo di amministratice scolastica in segreteria. 

La provveditrice scolastica del Veneto, negli ultimi giorni, ha negato che la docente sarebbe stata demansionata e anche che sia stata vittima di transfobia nel luogo di lavoro. Secondo le sue dichiarazioni, la professoressa di fisica faceva già parte di due graduatorie diverse e avrebbe anche potuto lavorare in segreteria, sottintendendo che il lavoro in segreteria fosse una scelta volontaria. 

Dagli atti risulta che l’insegnante, invece, aveva subito tre provvedimenti disciplinari in sette mesi, tra il 2015 e il 2016, proprio nel periodo seguente al coming out. Inoltre, proprio qualche settimana prima della sua morte, Cloe Bianco aveva chiesto l’aggiornamento della propria graduatoria per poter tornare a insegnare.

Dunque, sembra evidente che in tutti questi anni l’insegnante sia stata allontanata di proposito dalle aule e costretta a chiudersi in sé stessa ed isolarsi.

«Purtroppo, per quanto riguarda la cura delle persone affette dalla disforia di genere, siamo all’anno zero». Queste le parole dell’avvocata Alessandra Gracis, che ha commentato quanto accaduto a inizio giugno. Non è stato fatto nulla, continua Gracis, per poter offrire un supporto adeguato alla comunità trans nella regione del Veneto.

Per disforia di genere si intende quella condizione in cui una persona sperimenta forte disagio perchè il suo sesso biologico non coincide con il genere a cui si sente appartenere. L’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, ha determinato la gratuità degli ormoni per le persone trans, ma per potere accedere alla terapia e a questi ormoni bisogna comunque ottenere una diagnosi di disforia di genere da diversi specialisti, processo non accessibile a tutte le persone transgender. 

È da prendere comunque in considerazione che non tutte le persone transgender decidono di intraprendere un percorso di transizione, ma non per questo dovrebbero essere private del loro riconoscimento.

Per questo motivo, è importante introdurre l’istituto dell’identità alias in tutti contesti lavorativi ed educativi, che permetterebbe alle persone trans senza documenti rettificati di essere riconosciute con il proprio genere di riferimento.

In Italia le procedure per la rettifica anagrafica sono molto lunghe e dispendiose; infatti, uno dei problemi di disagio maggiore per le persone transgender deriva dal doversi sentire chiamati con il dead name, il nome che non li rappresenta più. 

Anche in queste ultime settimane, molte testate giornalistiche si sono riferiti a Cloe Bianco con il suo dead name e il sesso assegnatole alla nascita, con i quali non si identificava più. Anche questa, nonostante sia sottovalutata, è una forma di violenza che si aggiunge agli attacchi transfobici che la comunità deve sopportare giornalmente.

La sensibilizzazione all’identità di genere e all’orientamento sessuale deve partire anche dal lessico che si sceglie di utilizzare per affrontare un determinato argomento. Osservando gli ultimi dati della ricerca condotta da Dentsu dal titolo The Dark Side of Pride, l’hate speech nei confronti della comunità LGBTQ+ in Italia è in aumento: ogni mese vengono pubblicati online oltre 5 mila (precisamente 5.300) contenuti che includono insulti omofobi e che diventano oltre 6600 durante il mese del Pride. La conclusione finale è dunque che l’omofobia è cresciuta del 25%. 

In aggiunta a ciò, a marzo l’Istat ha pubblicato un’indagine sulle discriminazioni sul lavoro nei confronti delle persone queer nell’ultimo anno. Una persona su tre, tra omosessuali e bisessuali, è stata discriminata sul lavoro. E una persona su cinque ha subito un’aggressione o ha vissuto un clima ostile sul luogo di lavoro. 

Perfino le azioni più semplici possono mettere in pericolo una persona queer, tant’è che il 70% delle persone LGBTQ+ ha dichiarato di evitare di tenersi per mano in pubblico proprio per questa ragione. È di qualche giorno fa la notizia di un ristoratore che si è rifiutato di fornire uno spray antizanzare a un cliente, urlandogli contro «A quelli come te non do lo spray antizanzare», perché omosessuale: uno dei tanti atteggiamenti omofobi che la comunità deve ancora subire giornalmente.  

Questi dati non sorprendono se si pensa quanto ancora l’Italia sia indietro in tema di diritti LGBTQ+, tanto da essere rimasta l’ultima in Europa occidentale senza una legge contro l’omobitransfobia.

L’affossamento del Ddl Zan ha scoraggiato e amareggiato, infatti, la comunità LGBTQ+, vittima giornalmente di discriminazioni e attacchi omo-bi-transfobici molto spesso non puniti. Per quanto riguarda, invece, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, questo è garantito soltanto in parte dalle unioni civili approvate nel 2016 con il decreto Cirinnà. 

L’approvazione del decreto Cirinnà è stata una grande vittoria che però presenta delle lacune e non garantisce gli stessi diritti previsti per l’istituto del matrimonio. Da anni la comunità LGBTQ+ chiede anche il riconoscimento della responsabilità genitoriale alla nascita e una riforma delle adozioni.

La storia di Cloe Bianco è uno dei tanti casi di discriminazione che, a differenza di altri, è emerso a causa del suo tragico epilogo. La sua morte rappresenta l’ennesimo omicidio di uno Stato che non si prende cura di una grande fetta dei propri cittadini, che nonostante tutto continuano a marciare con orgoglio.


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