Netanyahu fuori, entra il nuovo (bizzarro) governo israeliano
Con un voto alla Knesset si è insediato il nuovo governo israeliano anti-Netanyahu: mettendo insieme la destra annessionista, la sinistra e il partito islamista, la nuova compagine è una miscela pronta a esplodere.
Netanyahu abbandona il trono, facendo malvolentieri posto al governo più bizzarro che Israele abbia mai avuto, votato ieri alla Knesset per 60 favorevoli contro 59 contrari: con un primo ministro dalla destra annessionista, include il partito islamista e la sinistra laburista. Tenuta assieme esclusivamente dall’opposizione a Netanyahu, la nuova compagine israeliana guiderà il Paese con una maggioranza minima di 61 su 120 dopo due anni di impasse politico e quattro tornate elettorali, ed è una miscela a dir poco esplosiva.
«Nessuno può dire quanto durerà, non c’è mai stato niente del genere» spiega a Eco Internazionale Adam Keller, portavoce dell’ONG israeliana Gush Shalom (Blocco della Pace). «Questo governo cercherà di non occuparsi di questioni controverse, ma in Israele è impossibile evitare di occuparsi di controversie, perché arrivano sempre all’ordine del giorno, che il governo lo voglia o meno».
Sul filo del rasoio ci sono le alleanze tanto a destra quanto a sinistra, oltre che la durata del governo stesso. I partiti inclusi nell’alleanza anti-Netanyahu sono otto – dalla destra nazionalista religiosa del nuovo primo ministro Naftali Bennett (Yamina), passando per il centro (Yesh Atid e il Partito Blu e Bianco) e la sinistra sionista (Partito Laburista e Meretz), fino al partito conservatore islamista, la Raam (Lista Araba Unita, diversa dalla Joint List).
Sulla carta, il leader centrista di Yesh Atid, Yair Lapid, fra due anni dovrebbe sostituire Bennett come primo ministro. Un dato quanto meno curioso è che il partito di Bennett non porta che sei seggi su 61 nel piatto della maggioranza – 11 in meno del partito di Lapid e appena due in più del partito islamista.
Chi è il nuovo premier? Figlio di immigrati ebraici dalla California, Naftali Bennett ha nel suo curriculum l’essere stato a capo del principale organo politico che rappresenta i coloni nei territori occupati. In passato ministro per la difesa, milionario, ha promesso di occuparsi degli interessi israeliani in Cisgiordania.

Le posizioni in Israele non potrebbero essere più polarizzate. Il nuovo governo – racconta in un tweet Mairav Zonszein, analista esperta di Crisis Group – è stato accolto con le celebrazioni da alcune migliaia di manifestanti anti-Netanyahu in Rabin Square, mentre a Gerusalemme gli ortodossi si sono raccolti in una preghiera “a lutto”.
«Torneremo, presto. Torneremo!» ha dichiarato ieri Benjamin Netanyahu. Né lui, né i suoi alleati hanno intenzione di arrendersi, come preannunciato dalla pressante campagna dei giorni antecedenti al voto. Una campagna aggressiva che si è scagliata contro gli esponenti di destra della nuova coalizione. «Manifestazioni sotto casa, giorno e notte, e-mail, chiamate e molestie alle famiglie e anche ai bambini a scuola – un comportamento aggressivo inaccettabile» commenta Keller.
Un governo guidato da una figura come Bennett, naturalmente, non poteva raccogliere il plauso della sinistra, che si divide fra chi guarda con favore alla liberazione da Netanyahu e chi si rifiuta categoricamente di accettare questa alleanza. Sul fronte arabo-israeliano, la questione diventa ancora più complessa. Non è certo una sorpresa che in Rabin Square non ci fosse neanche una bandiera palestinese a festeggiare la fine – almeno temporanea – dell’era Netanyahu.
«L’inclusione della Lista, anche se storica, è una lama a doppio taglio. La presenza di un partito non-sionista che rappresenta i cittadini palestinesi potrebbe essere un trampolino per un governo più rappresentativo in Israele» spiega Zonszein. «Ma è da notare che quando un partito non-sionista si è finalmente unito a un governo, lo ha fatto rompendo la Lista Unita dei quattro partiti rappresentanti la popolazione arabo-palestinese. E lo ha fatto senza menzionare questioni chiave importanti per i cittadini palestinesi di Israele, nello specifico mettere fine all’assedio di Israele su Gaza e in generale l’occupazione dei Territori Palestinesi».
«L’immagine di Bennett, Lapid e il leader della Lista Mansour Abbas che firmano un accordo è carica di simbolismo – prosegue – ma solo il tempo potrà dire se l’inclusione della Lista porterà a nuova politica che affronti le aspirazioni palestinesi o se invece aiuterà a legittimare un annessionista dell’estrema destra come primo ministro». Oltretutto, il fatto che questo governo difficilmente affronterà questioni palestinesi significa il mantenimento dello “status quo” – ovvero il ripetersi di scontri in una spirale discendente – che è esattamente quanto i palestinesi non vogliono.
C’è un altro problema che Mansour Abbas dovrà presto affrontare: le promesse fatte ai suoi principali sostenitori, le comunità beduine del deserto del Negev. «Pagano un duro prezzo delle politiche israeliane – spiega Keller – in un certo modo anche più dei palestinesi nei Territori Occupati, anche se sono cittadini israeliani».
I beduini vivono nel deserto del Negev da secoli e per lungo tempo lo hanno fatto senza ingerenze da parte della potenza di turno, fosse questa ottomana o inglese, mantenendo il proprio ordinamento e le proprie regole tradizionali. Le comunità non hanno mai sentito bisogno di registrare i loro territori: erano perfettamente consapevoli di quali fossero le divisioni delle aree del deserto.
Con la nascita di Israele le cose sono cambiate: al momento, Israele li tratta come “invasori abusivi” e impedisce loro di costruire case e avere collegamenti a servizi come acqua ed elettricità. Vivono in baracche che vengono regolarmente abbattute dai bulldozer israeliani. «C’è anche una nuova legge – aggiunge Keller – che obbliga i beduini a pagare il costo della distruzione delle loro stesse case».
Ed è proprio qui il problema. Il partito islamista ha conquistato sempre di più i favori dei beduini – fra cui è sorto negli anni un sentimento nazionale palestinese e ancora di più religioso islamico tradizionalista – costruendo moschee e inviando predicatori e, soprattutto, avanzando promesse. «Mansour Abbas dice che gli è stato promesso che la maggior parte dei villaggi saranno riconosciuti – spiega Keller – ma Bennett nega sia stata fatta una simile promessa, e che l’unica promessa è che verrà istituito un comitato di esperti per determinare la migliore soluzione per i beduini, e questo comitato durerà per nove mesi».
Se i beduini dovessero rimanere delusi nelle loro aspettative, sarebbe probabile prevedere un’esplosione di tensioni e violenza nel Negev, come già accaduto in passato. «Ci sono così tante ambiguità e promesse – conclude Keller – che almeno un lato verrà deluso. Come andrà a finire? Nessuno lo sa, dovremo aspettare e vedere».