Storie di Sport

Rosalie Fish, l’atleta che corre in difesa delle donne indigene

Rosalie Fish, runner che gareggia col volto tinto di rosso, difende la causa dell’intera comunità Cowlitz e delle donne indigene vittime di violenza.


Le campagne di giustizia sociale possono essere portate avanti anche attraverso lo sport, in questo caso tramite la corsa. Da qualche anno Rosalie Fish si è distinta sia per i risultati agonistici nella corsa che per il suo supporto alle donne indigene vittime di violenza. 

Rosalie è nata e cresciuta in una riserva indiana nello stato di Washington, all’interno di una comunità di circa 500 membri appartenenti alla tribù dei Nativi Americani Cowlitz. La sua identità di indigena è stata spesso motivo di discriminazione, sia per lei che per la sua famiglia. Sua zia, Alice Looney, scomparve nel 2004 e il suo corpo fu ritrovato 15 mesi dopo, senza alcuna apparente spiegazione. In realtà la spiegazione viene fornita dalla statistica: negli Stati Uniti, la percentuale di omicidi di donne indigene è dieci volte superiore alla media degli omicidi nazionali. Inoltre, il 55% delle donne indigene è vittima di violenza domestica. 

La vicenda della zia Alice ha avuto un forte impatto su Rosalie, che ha trovato conforto proprio nella corsa. La giovane ragazza ha iniziato a correre al liceo Muckleshoot Tribal, partecipando anche ad alcune gare locali. Tuttavia, proprio a causa della sua appartenenza etnica, molti eventi rifiutavano la sua partecipazione alle gare di corsa. 

Ciò che l’ha stimolata a farsi valere è l’esempio di un’altra runner indigena, Jordan Marie. Quest’ultima, alla maratona di Boston del 2019, rese onore a 26 vittime indigene, dipingendosi con della vernice rossa una mano sul volto, vicino la bocca, simbolo del silenzio a cui erano state costrette quelle vittime. 

Quell’episodio ha spronato Rosalie Fish a continuare ad allenarsi e così, subito dopo il liceo, si è iscritta alla maratona di Washington dello stesso anno. In quella occasione, per la prima volta, si tinse il volto di rosso e scrisse sulle gambe “MMIW”, ovvero Missing Murdered Indigenous Women, per le donne indigene scomparse e uccise. Rosalie vinse tutte e quattro le gare (400 metri, 800, 1600 e 3200) dedicando ogni vittoria a una donna scomparsa e donando la medaglia alle famiglie delle vittime. In particolare, la vittoria nella corsa dei 1600 la dedicò a sua zia Alice Looney. 

Alla fine del 2019, Rosalie Fish si iscrisse all’Iowa Central Community College, dove poté continuare a correre a livello agonistico, supportata da un coach. Dopo l’esperienza di Washington, la giovane ormai quasi ventenne non voleva abbandonare la causa per cui si stava battendo.

Dovette dapprima assicurarsi che le dediche alle MMIW non violassero alcun tipo di regola nel NJCAA, l’associazione di atletica nazionale del college. Quindi lottò per spiegare come la sua scelta non rappresentasse un atto meramente politico. «Non posso cambiare il fatto che io sia indigena» ha dichiarato Fisher, «e non posso cambiare il fatto che io, la mia famiglia e la mia comunità siamo colpite dalla crisi delle donne scomparse e uccise. Questo per me non è un attacco politico, significa essere umani». 

Questo messaggio è riuscito a smuovere le coscienze anche di altri runner e atleti. Il suo coach si è detto meravigliato di vedere altri runner, anche uomini, dipingersi la faccia di rosso per onorare le vittime indigene. Durante il campionato Indoor Track and Field organizzato dal NJCAA, tutti i runner hanno perfino indossato una maschera e utilizzato della vernice per il corpo con la scritta #metoo, sulla scia della campagna partita qualche anno fa.

A gennaio di quest’anno, Rosalie Fish ha scritto una lettera di intenti per correre con la squadra degli Huskies a Seattle (Washington), che si è classificata tra le 13 migliori negli ultimi campionati. La sua decisione è dipesa dal fatto che nello stato di Washington risiedono circa 30 tribù indigene: in questo modo avrebbe avuto la possibilità di rappresentarle tutte durante le varie gare. Il suo attivismo è stato portato all’attenzione proprio dell’Università di Washington, ulteriore segnale di come la sua iniziativa non stia passando inosservata.

Lo scorso novembre la giovane atleta e attivista ha corso l’ultima gara da universitaria, piazzandosi quinta e dedicando ancora una volta la sua corsa alle donne indigene vittime di violenza. Oggi vorrebbe proseguire i suoi studi, per continuare a difendere tutte le vittime della comunità indigena. 

Nonostante la pandemia abbia ridotto drasticamente le possibilità di gareggiare, Rosalie sta comunque rendendo consapevoli i suoi followers su Instagram di ciò che la sua comunità deve affrontare. Nel suo ultimo post, infatti, ha condiviso una sua foto dopo il vaccino, sottolineando non solo l’importanza di vaccinarsi ma anche la situazione critica in cui versa la comunità indigena a cui spesso non viene prestato soccorso o non vengono date le giuste cure.

La storia di Rosalie Fish è dunque un esempio perfetto di quanto, attraverso lo sport, sia possibile sensibilizzare riguardo tematiche importanti e di come si possa competere non solo per sé stessi ma in rappresentanza di un’intera comunità.


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Matilde Mancuso

Classe 1995. Appassionata di letteratura, diritti umani, cinema e musica, nella mia vita non può mancare una tazza di tè e il prossimo viaggio programmato.