Non abbiamo bisogno (solo) della “presenza femminile”

Che ruolo svolgono le donne, che esperienze portano, che cosa fanno, è importante come e più della presenza femminile, in Tv e in qualsiasi altro spazio pubblico.


Lo scorso lunedì, Aurora Leone dei “The Jackal” è stata, improvvisamente, allontanata dalla cena inaugurale della Partita del cuore, dallo stesso Direttore Generale della Nazionale Italiana Cantanti, Gianluca Pecchini. Quest’ultimo, infatti, nonostante l’attrice fosse stata regolarmente convocata, insieme a Ciro Priello, si è avvicinato al tavolo, intimandole di alzarsi perché “le donne non giocano a calcio”, per poi sottolineare, di fronte alle sue obiezioni, che la divisa avrebbe potuto, comunque, indossarla anche in tribuna. 

Qualche giorno fa, invece, Rula Jebreal, giornalista di nazionalità israeliana, ha rifiutato di prendere parte al programma Propaganda Live, dove era stata invitata per affrontare, dal punto di vista dei palestinesi, il delicato tema della nuova escalation di violenze, che, al momento attuale, sta interessando i territori occupati da Israele. La giornalista, infatti, avendo preso visione del parterre, si è accorta di essere l’unica donna su sette ospiti e, di conseguenza, ha deciso di declinare l’invito, in nome della parità di genere e dell’inclusione. 

Due giovani professioniste, che hanno perso il proprio posto a sedere, pur avendone avuto pieno diritto; due casi sintomatici, soltanto apparentemente diversi,  che, coinvolgendo temi come il calcio e la politica, culturalmente e storicamente maschili, mettono a nudo quello che, spesso, è il ruolo attribuito alle donne e, in generale, il modo in cui viene affrontato il discorso sull’uguaglianza tra i sessi in ambienti pubblici, che si tratti della televisione, della politica o di qualsiasi “professione ad alta visibilità”.

Aurora Leone viene convocata, sull’onda del politically correct, non per le sue capacità sul campo, che vengono escluse a priori, ma piuttosto per integrare la quota rosa della squadra, che per il resto potrà fare a meno di lei. 

Rula Jebreal – che già durante l’edizione 2020 di Sanremo aveva visto il suo monologo sulla violenza domestica, inserito in un contesto in cui le donne (undici!) erano considerate quasi intercambiabili – invitata a intervenire, nuovamente, in una trasmissione televisiva, ha colto la palla al balzo per ritirarsi e denunciare lo scarso spazio generalmente attribuito alle donne in questi ambiti. 

In tal modo, ha perso la possibilità di raccontare, da un palco che, nel bene o nel male, le aveva riconosciuto questa competenza, la prospettiva dei Palestinesi; una prospettiva necessaria, data la tendenza dei media nazionali e internazionali ad assumere un punto di vista schierato, nella narrazione di un conflitto troppo complesso per essere ridotto a un’unica versione. 

Quella della Jebreal era una sfida (corretta) al sistema, ma il metodo utilizzato finisce, inevitabilmente, per prestare il braccio, da un lato, a quanti provano con ogni mezzo a ridimensionare le questioni legate alla parità di genere, e, dall’altro, agli stessi fautori degli “spazi dedicati alle donne”. 

Il gesto di Rula Jebreal non è stato sicuramente ingiustificato, se consideriamo soltanto che, in base ai dati dell’Osservatorio di Pavia, gli uomini rappresentano il 63,7 per cento degli ospiti nelle trasmissioni, contro il 36,3 per cento delle donne, e che, nel settore della politica, le candidate intervistate costituiscono il 18,1 per cento, le portavoce il 22 per cento, mentre le esperte e le opinioniste raggiungono appena la soglia del 24,8 per cento nell’ambito dei programmi RAI. 

Tuttavia, oltre alla questione quantitativa, occorre necessariamente considerare quella di tipo qualitativo: che ruolo svolgono le donne, che esperienze portano, che cosa fanno, è importante come, se non di più, di quante donne sono presenti in tv, come in qualsiasi altro spazio pubblico. 

Che le donne siano o meno partecipi di un dibattito o di una manifestazione in genere, può avere effetti positivi o altrettanto negativi sui contenuti prodotti e offerti al pubblico; come pure non ha alcun senso coinvolgere un gran numero di ospiti femminili, se poi si riserva loro poco tempo, nonché un esiguo peso specifico individuale, sottoponendole, il più delle volte, allo sguardo paternalistico di un conduttore, voce narrante dell’intera trasmissione. 

Come trattare, allora, lo scottante problema della presenza delle donne in ambito pubblico? Servirebbe, innanzitutto, un deciso cambio di prospettiva. Occorre, in altri termini, liberarsi dell’idea preconcetta della donna, come soggetto nei confronti del quale vada assicurata a tutti i costi una parità rispetto all’uomo, e abbracciare, invece, il concetto, più inclusivo e concreto, di un’uguaglianza tra le persone in generale, che consenta di tenere conto delle differenze, non soltanto fra i sessi, ma fra i singoli individui, arricchendo così di contenuti e punti di vista le informazioni che giungono allo spettatore.