Il genere femminile stretto nei pantaloni del sostantivo maschile

Quella fra il genere maschile e il femminile è una convivenza travagliata, non a causa di motivi lessicali, che in verità legittimano la partecipazione alla vita linguistica del femminile quanto del  maschile, ma per altri di natura sociale e politica che sembrano preferire avvocato ad avvocatessa, ministro a ministra.


I nomina agentis erano di casa già presso i latini che avevano cura nel declinare le professioni nei rispettivi generi maschile e femminile, senza mostrare fastidio nè storcere il naso. Patrona era riconosciuta tanto quanto patronus, ministra camminava accanto a minister, e, percorrendo i tempi, zarina accanto a zar, imperatrice a imperatore. Mestieri, dunque, che non fossero solo quelli di sarta, cuoca o maestra. 

Il linguaggio si rivela uno strumento mobile, flessibile e mai neutro, rappresenta il modo in cui gli individui concepiscono il mondo e si relazionano con esso. I cambiamenti linguistici sono compagni di banco di quelli ideologici: il bidello lascia spazio al collaboratore scolastico, il “mondezzaro” all’operatore ecologico. 

Il significato della parola diventa specchio della realtà sociale e dei suoi cambiamenti politici. Alba Sabatini, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 è stata pioniera delle riflessioni sulle rappresentazioni del femminile attraverso la lingua italiana per poter sensibilizzare l’uso di un linguaggio rispettoso dei generi grammaticalmente contemplati. Inoltre, la nostra è una lingua inserita fra le grammatical gender languages, ovvero quelle lingue in cui ogni sostantivo ha un genere identificato.

Il riconoscimento del femminile non si risolve mettendo una -a alla fine della parola, ma si coniuga nella necessità di riconoscere una categoria con cui si ha a che fare, che vuole esprimere e affermare il suo status andando oltre le critiche di chi si sente infastidito dalla cacofonia della pronuncia. Se l’uso del genere femminile per mestieri tecnicamente definiti al maschile può determinare una stortura fonetica, la soluzione è da rivedersi nell’iniziare a usarle con abitudine rendendo l’italiano una lingua inclusiva. Questo è un passo importante per attualizzare la lingua; il femminile professionale si prende i suoi spazi, in alcuni casi in maniera pacifica, in  altri  sgomitando. Proprio in quest’ultimo caso la convivenza fra i due generi  diventa ostica, tanto che il femminile si sente stretto nei pantaloni del maschile.

Perchè accade? Perché siamo reduci da una tradizione in cui per le donne era complesso poter ambire a ruoli di vertice, pertanto l’accezione al femminile di una professione veniva esclusa a priori, sotto l’aspetto sociale, dando vita a un sessismo linguistico che pone le basi a una questione di genere a partire dalla dimensione lessicale che influenza i rapporti interpersonali e la socializzazione. Inoltre, contempla ripercussioni nel modo di pensare l’identità e la realtà.

Declinare al femminile appare quasi una fatica a cui in pochi decidono di dedicarsi, anche solo per cambiare un articolo che identifichi la portavoce di quel ruolo, come se solo il maschile possa dare giustizia e importanza allo stesso. La presidente ha meno valore del presidente? Di certo godono dei medesimi oneri, quindi perché non avere gli stessi onori, a partire da quelli linguistici?

La capacità della lingua di innovarsi è un palese esempio di come questa sia in grado di adattarsi alle esigenze dei tempi. Abbiamo legittimato l’uso e l’abuso di anglicismi nella nostra lingua tanto da sostituirli a termini di uso corrente cacciati nel dimenticatoio per lasciare spazio a corrispettivi linguistici stranieri alle volte orridi e che non danno giustizia all’italiano. Davanti a ciò c’è ancora chi  tende a scomporsi per la parola architetta? Se l’Italia è il Paese dei paradossi, la sua lingua, ferma e sublime penna di tensioni morali, alle volte si dimostra sua degna rappresentante.