Pasolini e il calcio

Ricordare il pensiero di Pier Paolo Pasolini, scomparso nel 1975, ci invita a riflettere sul valore simbolico e culturale del gioco del calcio. 


Scrittore, poeta, regista, sceneggiatore, filosofo: questo e molto altro è stato Pier Paolo Pasolini. Le sue analisi della società italiana, negli anni dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta, lo hanno reso tra gli intellettuali più rilevanti e controversi del ventesimo secolo. Non è questa la sede per ricordare il suo ruolo centrale nel dibattito pubblico, la radicalità dei suoi giudizi o i suoi contributi nei vari campi del sapere, dalla filosofia alla saggistica, dalla letteratura al giornalismo.

Oggi ci soffermiamo su un piccolo spaccato del suo pensiero critico, quello attinente al valore simbolico e culturale del calcio, lo sport nazional-popolare italiano per eccellenza. 

«Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro». 

È possibile equiparare uno sport a un rituale sacro? È giusto attribuire al calcio un valore al di fuori del rettangolo di gioco? Sì, secondo Pasolini non vi era alcun dubbio: il calcio non poteva (e non doveva) essere inteso come un semplice gioco, ma era corretto conferirgli una funzione extra sportiva. Più di una pièce teatrale, meglio di una celebrazione religiosa, una partita di pallone diventa appunto ‘sacra’ per quello che riesce a trasmettere al suo pubblico. L’idea del calcio come ‘rappresentazione sacra’ appartiene sicuramente al calcio di quegli anni, ma risulterebbe di difficile applicazione a quello odierno, meglio identificabile in un rituale economico e non religioso. 

Ecco che la tesi di Pasolini viene suffragata da argomentazioni di natura semiotica e linguistica. «Il gioco del football è un ‘sistema di segni’, è cioè una lingua seppure non verbale. Anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere. Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico. […] Si noti che tra la prosa e la poesia non faccio alcuna distinzione di valore, la mia è una distinzione puramente tecnica».

Il calcio, quindi, è una vera e propria lingua, caratterizzata da codici e da registri. Tecnicamente si possono distinguere un calcio prosastico e un calcio poetico, a seconda di come esso viene declinato sul campo di gioco. Pasolini citava come esempi i campioni del tempo, da Bulgarelli a Riva, da Corso a Rivera, differenziandone le attitudini tattiche e le caratteristiche tecniche. Indubbiamente, il calcio degli anni sessanta e settanta era molto diverso da quello odierno, sotto tanti punti di vista. La distinzione tra prosa e poesia è però sempre riscontrabile, in quanto essa prescinde dall’evoluzione della tattica, dal cambiamento dei moduli di gioco e dal susseguirsi dei calciatori scesi in campo.

Al fine di esplicare questa divisione calcistico-letteraria, possiamo dire che fa prosa un singolo calciatore (o un’intera squadra) che gioca in maniera pragmatica e punta esclusivamente al risultato vincente, mentre fa poesia chi gioca in modo più spettacolare e vuole arrivare alla vittoria tramite azioni raffinate.

Due opposte filosofie calcistiche, partendo dalle quali si sono sviluppati diversi sistemi di gioco, ancor prima del calcio degli anni di Pasolini. Certamente il cosiddetto ‘calcio all’italiana’, basato essenzialmente su difesa e contropiede, era emblema del linguaggio prosastico. Restando in ambito di selezioni nazionali, il Brasile di Pelé, tre volte mondiale tra il 1958 e il 1970, era invece un chiaro esempio del linguaggio poetico. 

Nella distinzione tra calcio ‘in prosa’ e calcio ‘in poesia’, chi scrive è, a onor del vero, un convinto sostenitore del calcio pragmatico e quindi del linguaggio prosastico. Pur non manifestando nettamente la sua preferenza per l’uno o per l’altro tipo di linguaggio calcistico, Pasolini vuole tuttavia precisare che «ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti dei goal. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere del campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. Il calcio che esprime più goal è il calcio più poetico». 

Per il grande giornalista sportivo Gianni Brera, la partita perfetta era quella che terminava sul punteggio di 0 a 0, poiché solo in essa vi erano state due squadre che non avevano sbagliato nulla durante l’intero incontro. Pasolini ribaltava completamente la tesi di Brera, indicando nel momento del goal non solo la rottura degli equilibri iniziali, ma anche e soprattutto il punto di massima dimostrazione del linguaggio poetico del calcio. Se il termine inglese ‘goal’ si traduce con ‘obiettivo’ o ‘scopo’, ogni marcatura o rete rappresenta appunto il fine ultimo di ogni azione. Il goal è quindi l’atto più poetico del gioco del calcio, perché ne sovverte i codici prestabiliti e perché lo destruttura come sistema di segni. 

Il pensiero di Pasolini sul calcio rifletteva probabilmente la sua concezione estetica dello sport e della vita in generale; giusto comunque riconoscergli validità argomentativa e originalità. Acuto osservatore dei fenomeni sociali e politici del tempo, egli ha intuito le potenzialità insite nello sport più noto e seguito dagli italiani.


... ...