Il nuovo Dpcm colpisce (ancora) la cultura

 

Il nuovo Dpcm ha stabilito la chiusura di cinema, teatri, sale da concerto fino al 24 novembre: un duro colpo per un settore già gravemente colpito dalla pandemia.


Art. 1, comma 9, lett. m: «Sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto». Con queste parole il Dpcm del 24 ottobre scorso ha spento l’ultima speranza dei lavoratori del settore, sancendo la chiusura di cinema e teatri dal 26 ottobre fino al 24 novembre.

L’aumento esponenziale dei contagi delle scorse settimane nel Paese ha reso necessarie nuove misure restrittive che hanno il sapore amaro di un “lockdown a metà”: oltre al settore della cultura, risultano molto colpiti anche quello della ristorazione (con chiusura degli esercizi alle ore 18, e possibilità fino alle 24 soltanto del servizio di asporto o domicilio), e quello delle palestre (anche loro irrimediabilmente chiuse, dopo la “settimana di prova” annunciata giorno 18 ottobre da Conte).

Pur nella comprensione massima della situazione, percepita ormai universalmente nella sua drammaticità, e su cui chiaramente non si discute, non si può fare a meno di notare come il settore della cultura sembri penalizzato in modo eccessivo dal Dpcm in questione, e ci si chiede se davvero non ci fosse altra soluzione rispetto a quella effettivamente presa. 

Dati alla mano, si è provato come cinema e teatri appaiano tra i luoghi più sicuri in base al numero di contagi: dalla riapertura di giugno, su 347.262 spettatori che hanno acquistato un biglietto per un concerto o uno spettacolo, solo uno è risultato positivo al coronavirus. L’Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) ha analizzato 2.782 spettacoli (di varia natura, tra lirica, danza, prosa, concerti) con una media di 130 presenze per ogni evento; nel periodo considerato che va dal 15 giugno a inizio ottobre, le Asl territoriali hanno registrato un solo caso di contagio da coronavirus. Non è necessaria una laurea in statistica per capire quanto la percentuale sia pari allo zero, e quindi irrilevante.

Del resto, pensiamoci: nei cinema, così come nei teatri o nelle sale da concerto, si sta seduti al proprio posto, non si parla, non si mangia, si indossa la mascherina per tutto il tempo della rappresentazione, all’entrata si contingentano gli ingressi per evitare assembramenti (inoltre in base ai biglietti venduti si sa in tempo utile quante persone affluiranno); alla luce di tutto ciò, il rischio del cosiddetto droplet (letteralmente le “goccioline” del respiro che sono veicolo del contagio) appare davvero minimo, si deve riconoscere. E allora perché questa decisione così drastica?

«Un dolore la chiusura di teatri e cinema, ma oggi la priorità assoluta è tutelare la vita e la salute di tutti, con ogni misura possibile. Lavoreremo perché la chiusura sia più breve possibile e come e più dei mesi passati sosterremo le imprese e i lavoratori della cultura» ha twittato qualche giorno fa il Ministro dei Beni Culturali e del Turismo Dario Franceschini.

Una magra consolazione per le centinaia di migliaia di persone che gravitano nel mondo dello spettacolo: non solo attori, coristi, ma anche produttori, truccatori, fonici, costumisti, distributori; un intero settore in ginocchio che tentava faticosamente di rialzarsi dopo il lockdown totale degli scorsi mesi, e che adesso si trova a dover fronteggiare un’altra batosta. E davvero si parla di una fetta importante della società, considerato che la stima del comparto culturale in Italia arriva a contribuire fino al 16,6 per cento del PIL, con oltre un milione e mezzo di persone che vi lavorano.

Toccante la lettera aperta al Premier Giuseppe Conte e al Ministro Franceschini redatta dall’Associazione Cultura Italiae, che sottolinea le conseguenze disastrose che un’altra chiusura avrebbe su un settore già così penalizzato; oltre ai sacrifici per adeguare le strutture ai nuovi protocolli e garantire la sicurezza, oltre ai costi per il riallestimento degli spettacoli, si pone l’accento sull’aver «riconquistato faticosamente il pubblico, spesso titubante e confuso da una comunicazione altalenante e ansiogena, a riacquistare i biglietti, rassicurandolo sulla certezza degli spettacoli e sulla scrupolosa adozione di tutte le misure di sicurezza».

Già, il pubblico: perché l’arte, la cultura, vivono di pubblico, col pubblico e per il pubblico. Questa gente sempre più spaventata, che si sta vedendo togliere qualunque cosa, e che vede la “normalità” sempre più lontana, privata adesso, di nuovo, di quei luoghi di coesione sociale, quali potevano essere un cinema o un teatro.

La ratio alla base del Dpcm è presto detta: bisogna ridurre al minimo gli spostamenti, quindi eliminando ogni sorta di svago o divertimento, si disincentivano i cittadini a uscire dalla propria abitazione perché, nel concreto, “non si può fare niente”, “tutto è chiuso”, e allora si resta a casa.

Così, se non si può andare a mangiare una pizza fuori, se non si può andare in palestra, allora non si può neanche andare a vedere un film, o uno spettacolo teatrale, o un concerto. «Siamo rammaricati per come i teatri vengono considerati, ossia non un luogo di cultura, ma di diletto e svago, essendo stati equiparati alle sale bingo e non ai musei» dice Antonio Barbagallo, segretario della Federazione autonoma lavoratori dello spettacolo di Palermo. E in effetti, altro motivo che ha destato rabbia e perplessità è stato proprio questo, la previsione per i musei di continuare la propria attività.

Per non parlare degli animi infiammati sull’apertura delle chiese, ennesimo motivo di polemica, se si pensa che molti contagi sono avvenuti proprio durante celebrazioni di funerali o matrimoni; ma si deve pur considerare che l’art. 19 della nostra Costituzione prevede il diritto di professare la propria fede religiosa e di esercitarne il culto in privato e in pubblico. Qualcuno potrebbe replicare che anche la cultura ha una sua copertura costituzionale, perché l’art. 9 recita che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura». Ma d’altronde è proprio per questo che si rende necessario il cosiddetto bilanciamento tra diritti costituzionalmente garantiti, e “bilanciamento” significa (purtroppo) che qualcosa si deve sacrificare a favore di qualcos’altro, che ci piaccia o meno.

Ad ogni modo, puntare il dito contro quei servizi e quelle attività che sono state “risparmiate” dal Dpcm non servirà di certo a cambiare le cose, ma causerà soltanto rabbia e frustrazione.

È evidente che ai tempi di una pandemia tutto il superfluo debba essere eliminato; è evidente che le istituzioni si trovino di fronte a una situazione mai fronteggiata prima, e per la sua gravità, difficile da gestire. È vero che si deve almeno provare ad avere fiducia nelle scelte di chi ci governa, che ha promesso incentivi e aiuti proprio alle categorie maggiormente penalizzate; ed è anche vero che, qualunque decisione venga presa, gli scontenti ci saranno sempre.

Nonostante questo, la chiusura di cinema, teatri e sale da concerto continua a fare male e a intristire, suonando come una sconfitta sociale, culturale e umana. Perché «La cultura permette di distinguere tra bene e male, di giudicare chi ci governa. La cultura salva», per citare le parole del Maestro Claudio Abbado. Ma in un tempo in cui devono essere curati e salvati prima di tutto i corpi, si aspettano momenti migliori per la cura e la crescita dell’anima.


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