Coprifuoco in Italia, il Dpcm tra contraddizioni e proteste
Come si è scelto cosa aprire e cosa chiudere? Chi erano i manifestanti contro il coprifuoco a Roma e a Napoli? Tutti i dubbi su questo mini lockdown.
Come avranno appreso tutti, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha firmato lo scorso sabato l’ultimo Dpcm riguardante le nuove misure di contenimento della pandemia da Covid-19 in Italia. La settimana prima era stato pubblicato un altro Dpcm, più “leggero”, una sorta di anticipazione per quello vero.
I provvedimenti più stringenti sono arrivati suonando la carica, e con loro anche le proteste, dapprima a carattere esclusivamente locale al susseguirsi di diversi coprifuochi attivati in alcune regioni d’Italia, e successivamente nazionale. Napoli è stata la città che ha visto il maggior coinvolgimento nelle manifestazioni serali contro chiusure e coprifuoco, seguita poi da Roma, Catania, Torino e Milano, con la presenza dell’estrema destra e vari atti di disobbedienza civile.
La definizione più onesta delle nuove misure che hanno scatenato l’ira di tantissimi esercenti, può sintetizzarsi nella formula “lockdown addolcito”. Chiudere tutto tenendo aperto tutto. Come si è scelto cosa aprire e cosa chiudere? E chi erano davvero i manifestanti contro il coprifuoco a Roma e a Napoli che abbiamo visto nei video diffusi sui social? Una questione alla volta.
Un rafforzamento delle misure sembrava annunciato da tempo: arrivati al 18 ottobre con i dati dei contagi di coronavirus in Italia saliti alle stelle, giorno dopo giorno, la circolazione delle persone non poteva restare la stessa dei mesi estivi. Il tracciamento a partire dai casi positivi (il contact tracing) è ampiamente sfuggito di mano dopo un’estate sostanzialmente senza controllo; l’app Immuni, anche dopo il picco di download dello scorso mese – che non vuol dire assolutamente niente dato che non si sa se l’app resta installata sui dispositivi – ha incontrato la scarsa formazione degli operatori sanitari. Il solo buon senso non poteva salvarci, e non salverà neanche il Natale, come ha invece auspicato lo stesso Conte durante l’ultima conferenza stampa.
Il contenuto dell’ultimo Dpcm è ormai noto a tutti: si tratta di una chiusura serale al pubblico, a partire dalle ore 18 fino alle ore 5, di tantissime attività, soprattutto inerenti alla ristorazione; la chiusura è invece totale per altre strutture in grado di aggregare molte persone come cinema, teatri, palestre, piscine, sale da ballo, sale gioco, centri culturali, centri sociali e circoli sportivi. In soldoni, si salvano le chiese, le scuole (primarie) e lo sport professionistico. Ci sono ancora dubbi sulle modalità di apertura dei centri commerciali, anche e soprattutto in vista della ressa da shopping natalizio. Tutte queste chiusure, di fatto, suggeriscono al cittadino medio di starsene a casa perché fuori non c’è praticamente niente da fare e non si riesce a (o non si può) incontrare anima viva.
In generale, per quanto riguarda i comportamenti individuali, il Dpcm contiene una serie di raccomandazioni che conosciamo bene – o almeno dovremmo – e che, per evitare problemi di natura costituzionale, il Governo ha lasciato alla libera scelta dei cittadini, dato che riguardano perlopiù le abitazioni private e gli spostamenti necessari. È superfluo apostrofare come “assurdi” i consigli sulle mascherine in casa o sul sesso senza baciarsi.
Non è un lockdown ma ci siamo quasi. Si raccomanda di limitare al massimo gli spostamenti, e – per fortuna – se si esce davanti il portone di casa non si rischia di essere fermati e multati dai Carabinieri. Ma è la stretta sulla “zona aperitivo” che ha fatto agitare gli animi. Se le misure regionali avevano già messo un limite alle ore 23, quando ha inizio un vero e proprio coprifuoco in cui la circolazione dei mezzi, anche privati, è limitata, anticipando l’orario di chiusura dei locali, la mazzata nazionale ha messo tutti sullo stesso drammatico piano. Così è esploso il malcontento, perché non tutti sono contenti di «restare a casa il più possibile».
Non è bastata la promessa di aiuti economici e di sostegni estesi al lavoro dipendente tramite la cassa integrazione. Le misure che sono annunciate per metà novembre andranno a favore di una platea veramente vasta di persone che rischiano grosso, tra cui anche lavoratori già in possesso di contratti davvero precari (basti pensare agli addetti ai lavori nel settore teatrale). L’annunciato arrivo dell’elicottero con i soldi, dunque, non ha fermato le proteste.
Quello che sta venendo a mancare è, banalmente, un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni, e non è retorica. I gestori delle palestre – per citare una categoria – si sono sentiti presi in giro nell’arco di una sola settimana in cui, dalla richiesta di “mettere a norma per lavorare”, si è passati alla chiusura totale, senza possibilità di replica. Inoltre, tutti i lavoratori dei teatri e dei cinema stanno vivendo l’imposizione del Governo come fondamentalmente ingiusta: se c’erano dei luoghi con le distanze, le garanzie di sicurezza e i posti numerati, quelli erano cinema e teatri. Chiusi anche loro.
Senza voler sfiorare la questione di chi merita e chi non merita la tolleranza del Governo, il ragionamento è molto semplice: invogliare il cittadino a non fare nulla fuori casa, chiudendo ogni attrazione possibile; si lasciano, pressoché intatte, “briciole” come la Fede (calcistica e non) e l’Istruzione. Un approccio comprensibile in un Paese che di colpo si è ritrovato in piena emergenza coronavirus, di nuovo e con maggiore preoccupazione che a marzo. Al di là della poca credibilità che delle misure atte a contrastare effetti che si registrano in due o tre settimane siano emanate, e stravolte, nel giro di una sola settimana, la ratio del nuovo Dpcm non è quella di discriminare l’essenziale dal non essenziale: anche se si è aspettato, colpevolmente, il momento emergenziale, stavolta il lockdown “di colpo” non era possibile per una popolazione che si era ri-adattata e per le attività che hanno sofferto e soffrono la mancanza di tutele economiche nazionali.
Chi ha alzato la voce in piazza in questi giorni? La tensione sociale ha raggiunto livelli mai visti prima ed è innegabile che, oltre una strumentalizzazione facilona e spietata dei disordini napoletani e romani (quelli più importanti nella Penisola), ci sia una reale insofferenza verso delle misure davvero dolorose. Partendo dagli ultimi, quelli romani sono stati assembramenti in strada ben più contenuti di quelli napoletani: a Roma, infatti, i manifestanti erano poche centinaia (forse meno di trecento persone) e fra i protagonisti spiccavano i neofascisti di Forza Nuova, con Giuliano Castellino, il riferimento romano, a fare da apri fila. Nella Capitale, a Piazza del Popolo, i manifestanti hanno fatto esplodere bombe carta e lanciato oggetti contro la Polizia, danneggiando lungo il proprio cammino cassonetti, auto e motori.
Diversa ma ugualmente strumentalizzata la protesta napoletana. Qui il contesto e la gravità della situazione, però, sono ben diversi. Forza Nuova aveva annunciato la sua partecipazione «accanto al popolo» con un tweet del proprio leader, Roberto Fiore, ma non è andata come ha affermato il Presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, definendo le proteste come «uno spettacolo indegno di violenza e guerriglia urbana organizzata». C’erano i neofascisti, c’erano professionisti del disordine, ma c’era anche tanta fame e tanto vero, verissimo disagio economico, lontano anni luce da questa o quella ideologia politica. Il fronte era un misto di delinquenza comune ed esercenti furiosi.
Il corteo organizzato sui social si era dato appuntamento all’Università Orientale di Napoli mettendo insieme i “lavoratori della movida”, tra cui camerieri, pizzaioli, fattorini; dopo aver superato lo sbarramento delle Forze dell’Ordine posto a presidio del Palazzo della Regione, sono stati bruciati cassonetti, e lanciati petardi, sassi e bottiglie contro il palazzo. Il corteo si è infine trasformato in una vera e propria rivolta urbana con duri scontri e arresti. Ma ciò che colpisce di più sono i metodi da guerriglia e le aggressioni ai giornalisti, secondo le testimonianze, di chiaro stampo mafioso.
Anche se è risaputo come gran parte del circuito economico del Meridione subisca l’influenza o il controllo diretto da parte del malaffare mafioso, Roberto Saviano ha voluto dare una lettura molto diversa rispetto a quella fornita dal Presidente De Luca, sottolineando come non siano stati “solo delinquenti”. Lo scrittore, sul suo profilo Instagram, ha detto la sua sull’intera vicenda: secondo lui, la camorra non ha interesse a partecipare a questo tipo di manifestazioni dato che il crollo dei prezzi (o il fallimento) delle attività commerciali le consentirebbe di rilevare a prezzo stracciato esercizi utili, in futuro, al riciclaggio.
Questa vicenda che «si sposta dal fatalismo all’incapacità politica» va analizzata con molta cautela, senza generalizzazioni. «È un errore – dice Saviano – fermarsi al segmento criminale della vicenda». In piazza a Napoli «c’erano degli Ultrà, c’era un po’ di fascistume, c’erano i soliti No-Mask, ma tutto parte da una manifestazione di commercianti disperati». A Sud, dove è diffusissimo il lavoro nero, ulteriori chiusure e limitazioni non potevano che far precipitare la situazione. Nel caso specifico della Campania, dice Saviano, «De Luca ha smantellato la Sanità negli ultimi 5 anni, e quindi ha paura per questo, per qualcosa che anche lui ha commesso». Accettando l’interpretazione di Saviano, ciò che emerge è uno spesso strato di malcontento e paura gestito da una disorganizzazione politica, gli ingredienti giusti per avvelenatori e salvatori della patria.
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