Trump e l’autoritarismo: la linea di confine si trova a Portland

 

In seguito alla decisione di inviare agenti federali a sedare le proteste di Portland, il presidente Trump reitera gravi violazioni alla democrazia, varcando la via dell’autoritarismo.


Dalla morte di George Floyd gli Stati Uniti non sono più stati gli stessi. Una popolazione già esasperata dalle centinaia di migliaia di morti da Covid-19 – causate dall’incapacità dei governanti –, in un anno smosso dal fermento delle elezioni presidenziali, dopo uno dei mandati più divisivi degli ultimi anni, semplicemente non è più riuscita a lasciar correre.

Il razzismo non ha mai smesso di caratterizzare la vita negli Stati del sud. I genitori degli adolescenti di colore sono costretti a spiegare ai loro figli come comportarsi nel caso in cui dovessero essere fermati dalla polizia: mani in alto e ben in vista, inginocchiarsi e mai, mai cercare di scappare. Non importa chi tu sia, o cosa abbia fatto, se sei nero e corri, potresti beccarti una pallottola.

Questa assurda normalità non poteva continuare ancora a lungo in un mondo così interconnesso e multiculturale. Prima o poi la situazione sarebbe implosa, e a gestirla poteva trovarsi un bravo presidente o un cattivo presidente. Il caso ha voluto che la goccia che ha fatto traboccare il vaso avvenisse durante l’ultimo anno del mandato di Donald Trump. La goccia però, questa volta, ha fatto crollare una diga.

Dalla fine di maggio le proteste non si sono mai fermate. Nonostante le restrizioni, date dai vani tentativi di contenimento del Covid-19, i manifestanti non hanno mai smesso di urlare: “Black Lives Matter” (BLM).

La risposta del Presidente è stata tra le peggiori che si potessero attendere. Oltrepassando molti limiti tracciati dalla democrazia e dalla stessa Costituzione americana, ha militarizzato una protesta pacifica, provocando la degenerazione della risposta sociale ad un’ingiustizia “storica”.

Portland, nell’Oregon, è diventata il simbolo del movimento BLM, ed è proprio lì che Trump ha deciso di agire più duramente. Dal 26 di giugno le proteste di Portland hanno visto i cittadini scontrarsi con squadre di agenti speciali, tra cui i Border Patrol (il cui compito sarebbe la difesa dei confini e la risposta al terrorismo), armati con grossi fucili e con tute militari, senza numero identificativo e a volto coperto. A poche ore dal loro arrivo sono iniziati a girare in rete i primi video di denuncia: sequestri arbitrari, uso di spray urticanti, e violenza indiscriminata anche contro madri e veterani.

Tante sono state le voci che hanno gridato all’abuso di potere e alla violazione della democrazia, per prima quella della governatrice dello Stato, Kate Brown, che ha accusato Trump di aver provocato una inutile escalation di violenza. Dall’arrivo dei federali, infatti, le proteste sono tornate ad aumentare e sono ricominciati gli scontri con la polizia.

Questo attacco alla democrazia ha dato vita a diverse polemiche e ha reso evidente, ancora una volta, l’indole di Trump allo scontro, piuttosto che all’ascolto. Dopo settimane complicate e violenze ingiustificate, nella serata del 3 agosto, la Governatrice Brown ha comunicato che i corpi speciali lasceranno la città. Una notizia che fa tirare un respiro di sollievo in un clima di altissima tensione. Pare, infatti, che i video degli scontri, che Trump stava usando a suo favore nella campagna elettorale, non siano stati ben accolti dall’opinione pubblica.

Potrà questo errore costargli la rielezione? La speranza è sempre l’ultima a morire ma, di certo, la ritirata del mini-esercito di Trump segnerà una svolta nella politica della sua amministrazione.


 

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