Consiglio europeo e Recovery Fund: come funziona il fondo UE per la ripresa

 
 
 

Durante l’ultimo Consiglio europeo è stato raggiunto l’accordo sul Recovery Fund, uno strumento essenziale per il rilancio delle economie dei Paesi UE.


La riunione straordinaria del Consiglio europeo, tenutasi tra il 17 e il 21 Luglio scorsi, ha segnato una svolta storica non solo con specifico riguardo alla lotta contro gli effetti prodotti dalla crisi sanitaria attuale, ma anche con riferimento al contesto comunitario generalmente inteso. La sfida posta dal fenomeno epidemiologico del Coronavirus (SARS-CoV-2) ha reso necessaria l’adozione di misure straordinarie nell’ambito di una strategia volta a salvaguardare la salute dei cittadini e la stabilità finanziaria all’interno dell’Unione Europea (UE) e dei suoi Stati membri.

In un contesto nel quale le economie dei Paesi UE si caratterizzano per la loro stretta interdipendenza, il raggiungimento di una risposta comune – che tenesse adeguatamente conto degli interessi e delle posizioni delle parti in gioco – era il risultato più auspicabile, anche in considerazione della natura eccezionale del panorama economico-sociale dettato dalla pandemia.

Prendendo le mosse dalle proposte avanzate a livello istituzionale nei mesi precedenti, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi UE hanno raggiunto un compromesso sul Recovery Fund, definendone portata e funzionamento e sottolineando lo stretto collegamento tra questo strumento e il Quadro Finanziario Pluriennale (QFP) 2021-2027. La «soluzione equilibrata» si allinea, sotto il profilo dell’ammontare complessivo, a quanto proposto dalla Commissione europea nell’ambito della strategia denominata Next Generation EU, ossia 750 miliardi di euro.

La differenza risiede nella diversa divisione della somma tra contributi a fondo perduto e prestiti: mentre i primi, infatti, scendono a 390 mld rispetto ai 500 previsti dall’esecutivo comunitario e dall’asse franco-tedesco, i secondi salgono a 360 rispetto ai 250 originariamente stabiliti. Sebbene tale distribuzione sia il frutto dell’ennesimo scontro, in sede di negoziati, tra paesi “frugali”  e Stati “mediterranei”, l’accordo raggiunto segna un traguardo storico nel processo di integrazione europea, prevedendo, per la prima volta, una condivisione comune del debito e del relativo rischio, al fine di rilanciare l’economia e promuovere «la convergenza, la resilienza e la trasformazione» nell’UE.

Con specifico riguardo all’erogazione delle risorse, spetterà alla Commissione europea contrarre prestiti, per conto dell’Unione, sui mercati di capitali sino al 2026, al solo fine di fronteggiare le conseguenze derivanti dalla crisi sanitaria. Gli Stati membri fortemente danneggiati dall’impatto socio-economico della pandemia che intendano beneficiare di tali risorse, dovranno preparare dei piani nazionali per la ripresa e la resilienza contenenti programmi di riforma e di investimenti  per il periodo 2021-2023, che verranno valutati dalla Commissione entro due mesi dalla presentazione sulla base di alcuni criteri, quali: coerenza con le raccomandazioni specifiche per paese; rafforzamento del potenziale di crescita; creazione di posti di lavoro; resilienza sociale ed economica dello Stato membro, nonché effettivo contributo alla transizione verde e digitale.

I parametri poc’anzi menzionati – cui si aggiungono la popolazione, la grandezza del Paese, il tasso di disoccupazione medio tra il 2015 e il 2019 e l’impatto della crisi sanitaria – rappresentano l’allocation key, secondo cui vengono ripartiti, nello specifico, le somme di denaro che compongono il Recovery Fund. Secondo tali criteri, l’Italia beneficerà di circa 209 miliardi di euro, 82 dei quali in sussidi a fondo perduto contabilizzati nel debito pubblico nazionale e i restanti 127 in prestiti.

Su proposta della Commissione ed entro quattro settimane dalla stessa, la valutazione dei piani nazionali deve essere approvata, a maggioranza qualificata, dal Consiglio europeo, all’interno del quale uno o più Stati membri hanno la facoltà di attivare – «in via eccezionale» – una sorta di “freno d’emergenza”. Tale strumento, fortemente voluto dal Governo olandese, consiste nella possibilità di chiedere un maggior approfondimento, in sede di successivo vertice UE, circa il rispetto degli impegni assunti da parte dello Stato beneficiario, bloccando di fatto l’erogazione dei finanziamenti per un periodo di tempo. A tal riguardo, il testo delle Conclusioni del Consiglio europeo è abbastanza vago poiché non specifica cosa debba intendersi con l’espressione «in via eccezionale», lasciando semplicemente presupporre che tale procedura sia riservata a casi estremi, in linea coi «gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali» cui è subordinata la relativa attivazione.

Sebbene il meccanismo appena descritto rappresenti un importante strumento di pressione in favore dei Paesi “frugali” nei confronti di quelli “mediterranei”, non costituisce un vero e proprio diritto di veto, in quanto la decisione ultima circa la valutazione dei piani nazionali per la ripresa e la resilienza spetta sempre alla Commissione. Tale istituzione europea, tuttavia, è tenuta a chiedere il parere del Comitato economico e finanziario (CEF) sul programma di riforme ed investimenti predisposto dallo Stato membro interessato. Il CEF svolge un ruolo rilevante nei campi della politica economica, finanziaria, fiscale e monetaria, sia in sede consultiva che di monitoraggio, contribuendo a garantire, col suo operato, la salvaguardia della stabilità dell’UE nei settori di sua competenza.

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Un altro nodo cruciale affrontato in seno al Consiglio europeo è stato il QFP 2021-2027. La strategia promossa dai Capi di Stato e di Governo, in tal caso, ha preso le mosse da quanto stabilito durante la riunione di febbraio, con alcune modifiche volte ad adattare il bilancio UE alle sfide poste dalla crisi sanitaria e alle misure adottate all’interno del Next Generation EU. In particolare, la cifra massima totale della spesa per l’UE a 27 è stata ridotta a 1.074,3 miliardi di euro, rispetto ai 1.094.827 milioni inizialmente previsti; una riduzione, questa, dovuta alla diversa entità che l’azione degli Stati membri ha assunto, con la previsione di un indebitamento comune. Le sette rubriche che strutturano il QFP 2021-2027 – “Mercato unico, innovazione e agenda digitale”, “Coesione, resilienza e valori”, “Risorse naturali e ambiente”, “Migrazione e gestione delle frontiere”, “Sicurezza e difesa”, “Vicinato e resto del mondo” e “Pubblica amministrazione europea” – delineano le priorità politiche dell’UE, unite alla richiesta di una maggiore dotazione di risorse proprie raccolte direttamente dall’Unione, anche attraverso particolari imposte sui contribuenti europei.

Sebbene, come precedentemente affermato, il risultato raggiunto dal Consiglio europeo possa essere considerato storico, la maggior parte dei deputati del Parlamento europeo non ha accolto con favore i tagli che sono stati apportati al QFP 2021-2027, soprattutto con riguardo alla componente delle sovvenzioni alle priorità a lungo termine dell’UE, come Green Deal e Agenda digitale. Si tratta di programmi necessari e orientati al futuro che, se non adeguatamente supportati, non consentiranno «una ripresa sostenibile e resiliente». Sin da subito, i deputati hanno mostrato la loro determinazione a non concedere l’approvazione ad un accordo poco soddisfacente.

In ultima analisi, il compromesso politico raggiunto dai Capi di Stato e di Governo presenta profili positivi e di innovazione, uniti ad elementi di criticità. Se da un lato, infatti, la previsione di un indebitamento comune costituisce un’evoluzione sotto il profilo dell’integrazione monetaria e fiscale, dall’altro la sussistenza di gruppi di Stati membri dalle contrastanti posizioni delimita lo sviluppo del progetto europeo imperniato su una concezione comune di «unione sempre più stretta» e sul giusto bilanciamento tra solidarietà responsabile e rigore flessibile.


 

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