Luci e ombre sul taglio dei parlamentari

 
 

A settembre gli elettori verranno chiamati per confermare la legge sul taglio dei parlamentari, anch’esso sospeso dal Coronavirus.


Il Coronavirus ha messo in stand-by molte questioni rilevanti presenti nel programma elettorale del Movimento 5 Stelle tra cui uno dei suoi storici cavalli di battaglia: il taglio del numero di parlamentari. L’iter legislativo di revisione costituzionale sulla riduzione dei parlamentari, iniziato nel febbraio del 2019, stava giungendo alla sua conclusione dopo aver superato letture, approvazioni e cambi di governo.

Tuttavia, dopo le prime letture e l’approvazione delle due camere, l’11 luglio del 2019 il Senato ha approvato il disegno di legge con 180 voti favorevoli e 50 contrari, non raggiungendo così la soglia dei 2/3 che rende inammissibile la richiesta di referendum secondo la Costituzione (art. 138 comma 3). Il referendum richiesto da 71 senatori si sarebbe dovuto tenere il 29 marzo, ma con lo scoppio della pandemia il tutto è stato rinviato al 20-21 settembre 2020, giorno in cui si voterà anche per le amministrative.

Essendo un referendum di tipo confermativo e non abrogativo non vi sarà un quorum, dunque si procederà al conteggio dei voti validi indipendentemente dal fatto se abbia partecipato o meno alla consultazione la maggioranza degli aventi diritto. In poche parole, l’esito del referendum è dato quasi per scontato, in quanto la riforma costituzionale verrà approvata se si raggiunge la maggioranza dei voti favorevoli.

La legge in materia di riduzione dei parlamentari ridurrebbe complessivamente il numero da 945 a 600 componenti delle camere modificando gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. In particolare, la riforma prevede la riduzione dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200, con l’ulteriore modifica del numero dei componenti della circoscrizione estera (da 12 a 8 per la Camera e da 6 a 4 per il Senato).

Inoltre, viene fissato a cinque il numero massimo di senatori a vita di nomina del Presidente della Repubblica, eliminando una certa ambiguità nell’interpretazione dell’art. 59 della Costituzione. Complessivamente il taglio dei parlamentari comporterebbe una riduzione di circa 1/3 dei componenti delle due camere e una riduzione del numero del numero minimo dei senatori assegnato ad ogni regione, passando da 7 a 3.

Sebbene il Movimento 5 Stelle abbia presentato ai suoi elettori questa riforma come una novità quasi rivoluzionaria, il taglio dei parlamentari in Italia è stato più volte proposto nelle forme più variegate, sia dalla destra che dalla sinistra, ma i tentativi di riforma non sono mai andati a buon fine.

I primi due tentativi risalgono alla Prima Repubblica. La prima volta, nel 1983, la Commissione bicamerale Bozzi (PLI) ipotizzò la riduzione di circa un centinaio di parlamentari per ogni camera e l’aumento dei senatori a vita; il secondo tentativo, invece, risale alla XI legislatura (1993-1994), l’ultima della Prima Repubblica, e non andò a buon fine a causa dello scioglimento anticipato delle camere: la commissione bicamerale De Mita-Iotti (DC-PDS) presentò una relazione conclusiva nella quale venivano suggeriti i medesimi tagli proposti oggi dal M5S (400 deputati e 200 senatori).

Il progetto relativo al taglio dei parlamentari non fu messo da parte neanche con l’inizio della Seconda Repubblica, durante la quale si sono registrati altri cinque tentativi: nel 1997 la commissione presieduta da Massimo D’Alema (allora nel PDS) propose il taglio dei parlamentari, l’abolizione dei senatori a vita (tranne gli ex capi dello Stato) e l’introduzione di 200 rappresentanti delle regioni ed enti locali da coinvolgere nelle votazioni rilevanti per le autonomie. Il quarto tentativo, nelle mani del centrodestra, è stato sottoposto a referendum nel 2006: quella volta si propose una riduzione complessiva dei parlamentari e l’introduzione dei deputati a vita.

Questo ennesimo fallimento ha spinto i partiti a riconsiderare le iniziative parlamentari in materia di revisione costituzionale: da qui la stesura della bozza Violante (2007), condivisa da Berlusconi e dal PD di Veltroni, nella quale si proponeva una riduzione complessiva di circa 200 parlamentari mantenendo invariato il numero dei senatori a vita. Successivamente, un altro disegno di legge parlamentare simile al precedente venne presentato nel 2009, ma bloccato alla prima lettura della Camera dei deputati. Ultimo tentativo arenato (2016) è quello proposto dal Governo Renzi con la riforma del Senato votata nel referendum del 4 dicembre la cui bocciatura ha comportato la caduta del governo: la proposta dell’esecutivo di Renzi era quella di trasformare il Senato nel cosiddetto “Senato dei 100”, composto da 74 membri scelti dai consiglieri regionali, 21 tra i sindaci e 5 di nomina presidenziale per sette anni.

Il taglio dei parlamentari, dunque, non è una novità e i diversi tentativi presentati in 40 anni da tutte le fazioni politiche spiegano come mai il cambio di maggioranza e di governo, da Conte I a Conte II, non abbiano intaccato il progetto di riforma costituzionale dei 5 Stelle. Di certo, le motivazioni che hanno spinto i diversi partiti negli anni a presentare e ad appoggiare queste proposte potranno anche essere diverse, ma l’obiettivo auspicato rimane invariato.

È difficile credere che le motivazioni che hanno spinto i governi della Prima Repubblica a proporre il taglio dei parlamentari siano uguali a quelle odierne ma è comunque assodato che le motivazioni del M5S hanno fatto breccia nel cuore dei loro elettori e non.

Lo slogan del Movimento che ha accompagnato questa riforma è stato “meno sprechi, più efficienza”. Secondo il M5S, con l’auspicato taglio delle poltrone lo Stato risparmierebbe circa 300 mila euro al giorno in stipendi, con un risparmio annuale di circa 110 milioni; queste stime, tuttavia, sono considerate esagerate: Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio Economico dei Conti Pubblici dell’Università Cattolica, ha affermato infatti che il risparmio sarebbe di 81,6 milioni di euro, incidendo soltanto sullo 0,007% della spesa pubblica. Nonostante le critiche e le rettifiche, il Movimento ritiene che si tratterebbe comunque di un risparmio significativo.

Per quanto riguarda l’efficienza del Parlamento, il Movimento e la maggioranza sostengono che il taglio dei parlamentari porterebbe allo snellimento dell’iter legislativo, negli anni criticato da più fazioni politiche perché ritenuto troppo lungo e laborioso. Purtroppo, da questo punto di vista non è ancora chiaro come una modifica a livello quantitativo possa migliorare l’efficienza (dunque un dato qualitativo) del lavoro parlamentare, che invece potrebbe costituire un aumento delle mansioni gestito da un minor numero di soggetti.

Un’altra questione importante, forse non trattata fino in fondo, è quella della rappresentanza: teoricamente il Parlamento italiano è fortemente rappresentativo in quanto si ha un deputato ogni 96 mila abitanti e un senatore ogni 190 mila; con la riduzione dei componenti delle due camere il rapporto tra popolazione e numero di rappresentanti diminuirebbe drasticamente (un deputato ogni 150.000 abitanti e un senatore ogni 300.000 abitanti).

La questione della rappresentanza, inoltre, è fortemente legata alla proposta della riforma elettorale che accompagnerà la nuova composizione del Parlamento e sostituirà il Rosatellum. La nuova proposta di legge elettorale, depositata alla Camera il 9 gennaio 2020 dal presidente della Commissione affari costituzionali Giuseppe Brescia (M5S), propone un sistema elettorale proporzionale, l’abolizione dei collegi uninominali e l’innalzamento della soglia di sbarramento al 5% (al momento è al 3%), soglia difficilmente superabile dai partiti che rappresentano le minoranze. Un possibile correttivo per la rappresentanza potrebbe essere l’inserimento della preferenza e il superamento delle liste bloccate: tuttavia questi due punti non sono contenuti nel testo presentato da Brescia, ma verranno discussi in Parlamento.

Al momento l’unica certezza è che non vi saranno imminenti elezioni politiche: teoricamente le prossime elezioni del Parlamento sono fissate al 2023 (salvo voto anticipato) e il Quirinale ha già escluso ogni possibilità di voto anticipato prima del referendum; nel caso di voto favorevole di quest’ultimo, inoltre, ne conseguirà la discussione e l’approvazione di una legge elettorale adeguata alla nuova conformazione del Parlamento e per fare ciò il governo avrà a disposizione due mesi per varare la nuova riforma elettorale. A questo si aggiungono anche altre scadenze, come il disegno di legge di bilancio contenente la manovra triennale di finanza pubblica da presentare entro il 20 ottobre e l’approvazione della legge di bilancio entro il 31 dicembre.

Bisogna infine tenere in considerazione che il 2 luglio 2021 inizierà il cosiddetto “semestre bianco” periodo nel quale per consuetudine non si tengono elezioni e nel gennaio del 2022 vi saranno le elezioni del nuovo presidente della Repubblica. Dunque, a meno che Mattarella non ritenga opportuno sciogliere le Camere prima del semestre bianco, non avremo un effettivo riscontro della nuova riforma costituzionale (dal risultato ormai dato per scontato) e dello scenario elettorale ancora troppo confuso.


 

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