Ilva: storia di un “harakiri” italiano
Di Vincenzo Mignano – L’Ilva di Taranto, nella sua lunga storia, ha rappresentato uno dei poli cardine dell’industria italiana, distinguendosi per la sua importanza quale maggior stabilimento siderurgico in Europa. A partire dal luglio del 2012, tuttavia, la sua evoluzione è passata alla cronaca per le vicende giudiziarie – legate alle gravi violazioni ambientali che ne hanno caratterizzato l’operato – che, di fatto, hanno determinato una forte battuta d’arresto del suo funzionamento.
Nonostante le prime critiche ed azioni legali relative all’inquinamento prodotto dal plesso industriale fossero iniziate già a partire dagli anni ‘80, solo successivamente sono stati resi noti gli effetti sull’ambiente e sulla comunità cittadina. Nello specifico, secondo i dati raccolti dai periti nominati dalla Procura di Taranto, le emissioni di circa 4.159 tonnellate di polveri e 11 mila di diossido d’azoto e anidride solforosa hanno causato la morte di 11.550 persone per patologie cardiovascolari e respiratorie.

A seguito dell’inchiesta, iniziata nel 2012, e della firma – ad opera del Giudice per le Indagini Preliminari (GIP), Patrizia Todisco – del provvedimento di sequestro dell’impianto in questione e delle misure cautelari per alcuni indagati nel procedimento, con Decreto Ministeriale 21 gennaio 2015 è stata stabilita l’apertura di una procedura di amministrazione straordinaria, con nomina di un Collegio commissariale dell’Ilva S.p.a., avente il compito di risanare l’azienda e, in un secondo momento, favorirne la vendita.
Diverse le accuse mosse contro i dirigenti del polo siderurgico: disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.
Lo Stato italiano, nel tentativo di risollevare le sorti dell’impianto, decise di avviare una gara pubblica internazionale, successivamente vinta da ArcelorMittal – società franco-indiana principale produttrice di acciaio nel mondo – e sulla quale il nuovo Governo Conte, insediatosi nel giugno del 2018, aveva chiesto all’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) di effettuare alcune indagini.
Le ragioni che hanno spinto l’esecutivo, nel gennaio del 2016, ad agire in tal modo sono da rintracciarsi nella necessità di salvaguardare il ruolo centrale che l’Ilva ricopriva nell’economia e nell’industria del Paese, così come di evitare la perdita del posto di lavoro per i suoi dipendenti (circa 14 mila). Per raggiungere tali obiettivi, sono stati adottati interventi legislativi volti ad attenuare i livelli di inquinamento e a concedere al polo siderurgico – tramite posticipazione dei termini – un periodo di tempo utile per allinearsi agli standard ambientali. Alcuni di questi sono antecedenti al commissariamento, come il Decreto-Legge 1/2015, recante «Disposizioni urgenti per l’esercizio di imprese di interesse strategico nazionale in crisi e per lo sviluppo della città e dell’area di Taranto».

I recenti sviluppi del caso Ilva hanno messo in luce le caratteristiche dei possibili scenari che si potrebbero prospettare. Nel dettaglio, la società franco-indiana ArcelorMittal ha annunciato – ai commissari e ai sindacati – la propria volontà di restituire allo Stato italiano il polo siderurgico di Taranto, a causa della nuova cancellazione del cosiddetto scudo penale, che garantisce ai gestori dell’azienda di non subire un processo per problemi legati all’attuazione del piano ambientale.
Tale strumento ha provocato notevoli tensioni durante le trattative di acquisto dell’Ilva, dovute ai diversi moti di abrogazione e reinserimento che ne hanno caratterizzato l’applicazione. Sotto tale profilo, secondo i vertici di ArcelorMittal Italia, la decisione di eliminare lo scudo penale nell’esecuzione del piano ambientale consentirebbe al colosso franco-indiano di recedere dal contratto – sottoscritto a seguito della vittoria della gara pubblica internazionale – per giusta causa, in considerazione del mutamento del quadro giuridico di riferimento.
Di diverso avviso, invece, il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il quale ha sottolineato l’importanza e la necessità di un approccio inflessibile nel rispettare gli impegni contrattuali, ritenendo poco condivisibile una strategia imprenditoriale, volta ad addurre a sua giustificazione la presenza o meno di un elemento, lo scudo penale, non previsto nell’accordo.
La decisione di abbandonare il plesso industriale di Taranto, giocoforza, ha spinto a delle riflessioni di carattere economico. Nello specifico, l’aver formalizzato al Governo italiano l’intenzione di restituire l’Ilva ha contribuito ad incrementare del 6,1% le azioni del gruppo franco-indiano, quotato alla Borsa di Amsterdam. Secondo gli analisti, infatti, in caso di addio definitivo, l’ArcelorMittal potrebbe ritrovarsi free cash flow, ossia con flussi di cassa che residuano dopo gli investimenti, per 1,2 miliardi di dollari.
Sebbene questa strategia faccia ben sperare in considerazione del breve periodo, la valutazione cambia drasticamente se si punta sul lungo termine: qualora l’operazione di risanamento dell’Ilva avesse successo, per il colosso indiano ci sarebbero 500 milioni di dollari di Ebitda in più (margine reddituale che misura l’utile di un’azienda prima degli interessi, delle imposte, delle tasse, delle componenti straordinarie, delle svalutazioni e degli ammortamenti).
Risulta, quindi, chiaro come il caso dell’Ilva di Taranto rappresenta la tipica espressione di come l’incertezza giuridica e l’instabilità economica possano determinare l’erosione della credibilità di un Paese. Una tragedia alquanto complessa che mette a confronto due importanti beni della vita che ricevono tutela: l’ambiente e il lavoro. Una storia infinita che presenta molti malumori e troppe delusioni. Un harakiri degno dei migliori samurai.