A Gaza la sconfitta è di tutti, che si usino sassi o proiettili

Di Daniele Monteleone – Cosa è Gaza? È un luogo infernale. Vede la contrapposizione di due richieste sostanzialmente identiche: il diritto di esserci. Parliamo dei Palestinesi, un popolo senza diritti che dopo il Secondo conflitto mondiale è stato privato delle sue terre, anche per la propria incapacità diplomatica; e degli Israeliani, una realtà dapprima frammentata in quello che veniva definito un unico “Grande Israele” e adesso titolare di un controllo indiretto esteso anche alla Striscia di Gaza, territorio però palestinese.

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Gli scontri nella Striscia di Gaza, 14 maggio

Gaza è a tutti gli effetti una gabbia, riempita di bombe esplose – quelle Israeliane – o pronte a essere lanciate fuori dalle barriere palestinesi. Ma soprattutto, è un territorio di disgraziati che hanno perso la speranza nell’Autorità nazionale palestinese e che si sono affidati ad Hamas democraticamente, certo, ma pur sempre a un movimento nazionalista e religioso, nato come movimento sociale e rapidamente “diventato” organizzazione terroristica, riconosciuta tale dallo schieramento occidentale e difeso dallo schieramento dei colossi orientali.

Escludendo per un attimo ogni evoluzione negativa della politica condotta dai militanti di Hamas, appare ragionevole, ad esempio, la pretesa di infrastrutture portuali e aeroportuali nella Striscia. Soprattutto se consideriamo che Israele mantiene il controllo dello spazio aereo, l’accesso marittimo, l’ingresso degli stranieri, e altri settori tipicamente in mano a uno stato indipendente. Quello che la Palestina, però, non è. Il “dialogo” – se così si può definire – resta molto acceso e, soprattutto, restano altri morti sul terreno per la missione di Hamas a discapito di quanto pacifismo in marcia esista da un lato e dall’altro.

Quello successo qualche giorno fa, il massacro di civili palestinesi da parte dei soldati israeliani, in uno scontro di “sassi contro proiettili” – così come retoricamente raccontato – è l’ennesimo episodio di una guerra che ha dentro tanti, tantissimi uomini (anche giovanissimi) inconsapevoli di ciò che odiano. 

Opening ceremony of US embassy in Jerusalem

Cerimonia ufficiale di apertura dell’ambasciata alla quale ha presenziato la figlia di Trump, Ivanka

Proprio il “riconoscimento” di Trump dato alla sua capitale Gerusalemme, è stato affiancato al settantesimo anniversario della cacciata dei Palestinesi e inserita in un unico pentolone di risentimento antico e profondo. Ma lo spostamento dell’ambasciata USA è un falso problema (anche se non è stata una mossa “di aiuto”).

Importante è piuttosto la posizione in cui si pone l’asse che collega il fondamentalismo in SiriaYemen, passando per Hezbollah in Libano e, dunque, Hamas. La “resistenza palestinese” resta lo strumento per la realizzazione della jihad al nemico americano e ai suoi alleati arabi nella regione, a discapito di milioni di persone che vivono in condizioni davvero pessime, ai limiti della sopravvivenza, ancora “utilizzabili” per una lotta puramente politica e non (apparentemente) islamista.

Hamas ha saputo orientare tutte le manifestazioni e soprattutto giocarsi le sue carte per accrescere l’odio e la violenza, il tratto certamente comune nelle condotte scellerate, siano Israeliani o Palestinesi. I morti tra i civili – i martiri per alcuni, ma certamente figli di madri che volevano una vita lunga e dignitosa per le proprie creature – sono una “vittoria” per Hamas. Sono la prova internazionale del terrorismo israeliano, un’evidente violazione dei diritti umani e un’aggressione armata sconsiderata e soprattutto sproporzionata. Diverse tregue negli anni sono rovinosamente fallite (le più eclatanti in tempi recenti nel 2007 e nel 2008) per il mancato rispetto degli accordi, con accuse reciproche seguite da nuove violenze armate.

E allora si tratta di uno scontro tra terrorismi? Assolutamente no. Da una parte un non-stato che vuole una concreta gestione dei territori propria dello stato; dall’altra uno stato occupante che ha di fronte una strumentalizzazione jihadista e antisemita. Hamas inoltre invoca la Corte Penale internazionale contro i crimini internazionali perpetrati da Israele e realizza una pianificazione delle rivolte che, oltre a dare un’organizzazione alla rabbia della popolazione, fornisce anche un sostentamento alle famiglie di vittime o feriti con “indennizzi” in base alla gravità dei danni subiti dagli scontri alla frontiera. Un sistema “a incentivi” davvero perverso.

La piattaforma per la costruzione di un processo di pace resta comunque in stallo da troppi anni. La mediazione delle istituzioni internazionali, soprattutto con le possibilità di finanziamento per lo sviluppo e l’investimento nelle infrastrutture in territorio palestinese, forniscono, insieme alla “sterilizzazione” dell’estremismo di Hamas, utili punti di partenza per un rinnovato dialogo con Israele, più sicuro che mai di questi tempi. Ma il potere, dove può, accieca, e dove non può governare, uccide.

Originariamente pubblicato su Wmag, musica, cultura, attualità


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