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Rivolta in Kazakistan, l’opinione degli esperti

Un’intervista a Luca Anceschi e Albert Bininachvili, tra i massimi esperti di Asia Centrale, per comprendere le cause e la portata geopolitica delle proteste in Kazakistan.


Il Kazakistan è in rivolta. L’aumento dei prezzi del gas delle scorse settimane ha dato inizio a un effetto domino sfociato nelle gravi proteste degli ultimi giorni, alle quali il governo di Tokayev ha risposto dichiarando lo stato di emergenza e chiedendo l’intervento del CSTO a guida russa, che non ha tardato a rispondere all’appello.

Pubblichiamo l’intervista di Claudia Palazzo per il CSIG (Centro Studi Italo-Georgiani) a Luca Anceschi, professore di Studi Eurasiatici all’Università di Glasgow e autore della monografia “Analyzing Kazakhstan Foreign Policy” (Routledge, 2020), e Albert Bininachvili, direttore del programma Asia Centrale e Caucaso presso l’Università di Bologna.

A Luca Anceschi chiediamo delucidazioni sull’aspetto interno della rivolta in Kazakistan.

C.P.: Professore Anceschi, che succede in Kazakistan? La Russia è entrata per non andare più via?

L.A.: L’entrata delle truppe russe in Kazakistan dimostra che Tokayev è disperato. Per mantenere il controllo del potere, ha fatto appello al trattato del CSTO ed aperto le porte ad un intervento militare russo. Il numero delle truppe arrivate in Kazakistan è minimo, quindi siamo davanti ad un’operazione circoscritta, che i governi sia di Nur-Sultan che di Mosca hanno definito anti-terrorista. A mio modo di vedere, questo è un esempio di assistenza tra regimi autoritari.

C.P.: Quanto sono profonde le radici di questa protesta? Come mai il dissenso affiora solo adesso e con tale veemenza? 

L.A.: Queste proteste hanno radici molto profonde, che risalgono fino al momento dell’avvicendamento tra Nazarbayev e Tokayev. L’esplosione del malcontento in seguito all’aumento dei prezzi del gas dimostra quanto poco efficienti siano state le politiche economiche del Kazakistan post-Nazarbayev. Al malcontento economico si sono poi sovrapposte istanze politiche che chiedevano un accesso più immediato e trasparente a dinamiche democratiche. 


Ad Albert Bininachvili chiediamo un’analisi del contesto geopolitico e delle conseguenze internazionali della vicenda kazaka.

C.P.: Professore Bininachvili, l’ultimo appello al CSTO è stato fatto dall’Armenia durante la guerra dei 44 giorni con l’Azerbaigian, ma la Russia non è intervenuta. Come mai, invece, questa volta ha risposto immediatamente alla richiesta di Tokayev?

A.B.: In occasione della guerra in Nagorno-Karabakh, la Russia ha subito l’umiliazione di dover prendere atto dei mutati equilibri di forza nel Caucaso del Sud, dove la presenza della Turchia esercita un peso tale da non consentire alla Russia un intervento a gamba tesa. Una debacle, per Mosca, un’offesa alla propria immagine di arbitro monopolista delle vicende post-sovietiche, della quale ha adesso, invece, avuto modo di rifarsi.

Bisogna comunque tenere conto che Russia e Turchia hanno più di un’area di contrasto, e l’atteggiamento malleabile dimostrato dalla Russia nel Caucaso del Sud può essere inteso come contropartita rispetto alla maggiore accondiscendenza agli interessi di Mosca che la Turchia le può accordare in altre aree, ad esempio la Siria. 

Infatti, nel teatro kazako, la controparte interessata è Pechino, una potenza molto più vicina, molto più influente economicamente, ma non politicamente pronta a intervenire, nei confronti della quale, con questo intervento militare, Mosca riesce anche a strizzare l’occhio, mandando alla Cina il segnale chiaro che i suoi investimenti in Kazakistan, con la presenza russa, saranno al sicuro.

kazakistan proteste mappa

C.P.: Si possono leggere diversi di segnali da parte di Mosca, con questo intervento in Kazakistan…

A.B.: Certo, ciò che viene in mente è innanzitutto il riferimento alle cosiddette “Linee Rosse”, quelle che Putin ha esplicitato recentemente riguardo ai fatti ucraini. L’intervento militare in Kazakistan dimostra al mondo intero quanto Putin fosse serio nell’esigere il monopolio politico-militare nello spazio post-sovietico, che considera il proprio giardino di casa. Il caso kazako è il primo riscontro pubblico, collettivo e tremendamente evidente di quelle che da parte di Putin erano state, finora, solo minacce. 

C.P.: Quanto oltre intende spingersi la Russia in questa vicenda?

A.B.: Molto oltre, a giudicare da ciò che viene riportato dalle principali emittenti russe e che viene detto da molti deputati della Duma. In particolare, si comincia a sentire ampiamente parlare di minacce alla sicurezza della popolazione russa in Kazakistan e di conseguente necessità di “protezione” di essa. Ciò è qualcosa che rimanda chiaramente al 2014, ai fatti di Crimea e alle regioni orientali dell’Ucraina. Un grimaldello, quello della diaspora russa, ampiamente utilizzato in occasione di quei fatti, e che nell’ultima versione della Costituzione della Federazione Russa viene anche regolato legalmente come dovere di Mosca nei confronti dei suoi compatrioti, siano essi russi “etnici” o da passaporto. 

C.P.: Su quali basi formali si fonda il presunto diritto della Russia di intervenire in una situazione interna nel vicino Kazakistan?

A.B.: Il Trattato del CSTO, nel suo articolo quarto, dichiara che qualsiasi aggressione, da parte di uno Stato o gruppo di Stati, a uno degli Stati membri dell’organizzazione, sarà considerata un’aggressione a ciascuno degli altri Stati membri. Si tratta dunque di minacce esterne. É l’insieme delle fonti e delle procedure attorno all’invocazione dell’intervento del CSTO a fare davvero la differenza. Innanzitutto, in questo caso, la clausola di mutua assistenza è stata invocata direttamente da Tokayev, e il suo accoglimento senza ostativi da parte di nessuno ha reso il processo interventista privo di ostacoli da parte degli attori coinvolti.

Praticamente, non essendoci nessuno degli attori interessati e con voce in capitolo a dichiararsi contrario a questo intervento, il problema semplicemente non si è posto. Inoltre, la complessa impalcatura legale attorno al CSTO – basti pensare alla differenza fra il “Trattato” in sé, e l’organizzazione di Collective Security” che si fonda, appunto, attorno a tale trattato – lasciano una certa ambiguità interpretativa, un certo spazio di manovra, per piegare le regole – scarne e prive di minuzie e dettagli – alla necessità politica del momento.  

C:P: E se ciò non bastasse, si è già aperta la caccia al nemico esterno…

A.B.: Infatti. È questo forse uno degli aspetti più drammatici di questa vicenda, nonché il punto fondamentale fra le questioni di forma che rende Mosca serena nell’intervenire: i manifestanti sono stati tacciati di terrorismo, equiparati o definiti essi stessi terroristi internazionali, addirittura manovrati e addestrati dall’estero. Ma le informazioni in merito a ciò, ancora sono vaghe. Che essi finiscano per essere classificati come “terroristi islamici” o che si decida di utilizzare il classico spauracchio della tentata “rivoluzione colorata” manovrata dai “poteri occidentali”, poco cambia. Di fatto, l’intervento militare è stato classificato come intervento anti-terroristico.

Certo, qualora questo aspetto della vicenda venisse inquadrato come terrorismo islamico, ciò sarebbe un’altra strizzata di occhio a Pechino, come quello riguardante la protezione degli investimenti economici cinesi di cui si parlava poc’anzi. Terrorismo, e terrorismo islamico, infatti, sono i principali problemi – reali, o percepiti, o volutamente strumentalizzati –  della Cina in Asia Centrale.

Basti pensare alla vicenda tristemente nota dei territori dello Xinjiang, popolati non solo dagli Uighuri ma anche da quasi tre milioni di kazaki, a loro volta sottoposti all’enorme pressione del governo di Pechino. L’intervento russo eventualmente inquadrato in questi termini, dovrebbe, almeno a un livello di analisi più superficiale, risultare gradito alla Cina.

C.P.: Riguardo al posizionamento di Pechino nell’area, viene in mente l’altra impalcatura securitaria presente in Asia Centrale, la SCO…

A.B.: Certo, la Shangai Cooperation Organization, che peraltro nasce proprio in funzione antiterroristica. Sul momento non ci sono segnali che la Cina abbia motivi per intervenire direttamente, ma qualora se ne creasse la ragione, tale da far maturare a Pechino la volontà politica di essere essa stessa a “superare le Red Lines di Putin”, avrebbe anch’essa uno strumento per farlo. Ma è ancora troppo presto per parlarne, e al momento non sembrano esserci segnali in questo senso.

C.P.:  Io ricordo molto bene che a lezione, anni fa, lei parlava già, e con grande senso di urgenza, della questione kazaka, indicando il Kazakistan come il prossimo, più probabile, luogo di intervento russo…  

A.B.: Purtroppo è vero, quello che sta succedendo adesso è qualcosa che agli occhi di chi vive la Russia e l’Asia Centrale era evidente ormai da tempo. Non sul Baltico, iper-protetto, parte della NATO, parte dell’UE, si sarebbero volte le mire di Mosca, ma sul più remoto, più lontano, più isolato, almeno rispetto al punto di vista europeo, Kazakistan. Un Paese ricco di risorse, ma che soffre del suo destino geopolitico.

Vicino, con una significativa presenza di russi, ancora fortemente dipendente da Mosca, sia economicamente che politicamente, e con una controparte non intenzionata a mettere i bastoni fra le ruote, quale la Cina. Una preda molto più semplice per un cacciatore che cerca la dubbiosa e anacronistica gloria di “sobiratel’ zemel’ russkikh”. Avrei voluto sbagliarmi. 

C.P.: È dunque il destino geopolitico dell’Asia Centrale? Cosa dobbiamo comprendere da ciò che sta succedendo?

A.B.: Quello che dobbiamo comprendere è che questa situazione non è una problematica regionale, e remota rispetto all’Europa. Dobbiamo comprendere che la vicenda kazaka è solo l’ultimo atto di un asse dell’autoritarismo che si va sempre più rafforzando in ambito post-sovietico, e che questo problema riguarda direttamente noi.

Ciò che è successo in Bielorussia negli ultimi due anni e che sta portando a una diretta fusione con la Russia, le aggressioni e conseguenti occupazioni precedenti, in Georgia e in Ucraina, sommato con questo ultimo atto di espansione de facto, della Russia, devono seriamente preoccupare l’Europa, prima di tutto rispetto l’erosione della presenza geografica di luoghi in cui si vive secondo i valori del rispetto dei diritti umani e delle libertà civili e politiche individuali e collettive. L’Occidente deve trovare con urgenza una risposta comune e concreta a questa minaccia, non è più tempo di chiacchiere.


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