Turchia terra di mezzo

In quest’ultimo episodio di Muri d’Europa , sposteremo la nostra analisi nella rotta balcanica, che vede la Turchia, la Grecia e la Bulgaria, protagoniste dirette nella gestione dei flussi migratori.

Gli ultimi quindici anni di conflitti, con la crisi araba, il deterioramento della situazione in Libia, il conflitto siriano, il propagarsi della violenza nell’Africa subsahariana, hanno generato una forte instabilità, a cui, molti paesi, hanno tentato di rispondere con la progressiva chiusura delle frontiere terrestri della Fortezza Europa.

La Turchia rappresenta un esempio di ponte, tra quell’oriente e quell’occidente che difficilmente riescono a comunicare. Tra tutte, a incarnare questa implicita tendenza è proprio Istanbul che, per mezzo del Bosforo, si trova a cavallo tra Oriente e Occidente.

Capiamo però che la definizione di ponte trova difficile riscontro nel binomio Turchia-Europa, protese da un lato a collaborare, tramite accordi bilaterali e dall’altro a marcare sempre più quelle differenze che rendono i propri interessi inconciliabili. Tra queste troviamo innanzitutto le politiche interne di Erdogan che, già prima di “vincere” il referedum, ha iniziato a creare un sistema politico lungi dal potersi definire democratico. La situazione in Turchia è particolarmente tesa; la lista delle motivazioni è talmente ampia che rischieremmo di perdere il focus dell’analisi. Basta accennare al trattamento che giornalisti, NGOs e in generale la libertà di espressione, sono costretti a ricevere. Potremmo menzionale i fatti che hanno coinvolto Gabriele del Grande, o ancora l’arresto Taner Kılıç, Presidente di Amnesty International Turchia e di decine di avvocati. In questo contesto di forti repressioni e pressioni politiche, si inseriscono le politiche di contenimento dei flussi migratori.

Come emerge da un articolo del Il Sole 24ore, la rotta balcanica e in particolare quella che utilizza la Turchia per entrare nei paesi europei, è la seconda più percorsa, dopo quella del Mediterraneo centrale.

Nel contenimento dei flussi migratori, giocano un ruolo fondamentale gli accordi bilaterali che l’Unione europea, persiste a concludere con Paesi terzi che, molte volte, sono responsabili nella violazione dei diritti umani. Mentre la rotta del Mediterraneo iniziava lentamente a sgonfiarsi, a cavallo della operazioni di soccorso in mare Mare Nosrtum, successivamente gestite da Frontex, i flussi nella rotta Balcanica andavano aumentano. Prende così piede la necessità di collaborazioni con la Turchia . A novembre del 2015, i capi di Stato dell’Ue hanno tenuto una riunione con Ankara, durante la quale è stato avviato un Piano d’azione comune (PAC) per far fronte alla crisi dei rifugiati. Da quel momento la Turchia avrebbe bloccato i migranti e riaccolto i richiedenti asilo sospesi in Grecia a cui era stato impedito di proseguire il viaggio verso nord. Questo accordo, fa nascere sin da subito delle titubanze: affidare la gestione dei flussi migratori a un paese che a oggi non ha dato alcuna garanzia circa il rispetto delle libertà civili e soprattutto dei diritti umani. Inoltre gli arrivi nelle coste del Mediterraneo sono ricominciati a salire non appena è entrato in vigore l’accordo TurchiaEuropa, che ha di fatto chiuso la rotta del Mediterraneo orientale, ma non per questo ha bloccato i flussi, che si sono semplicemente spostati altrove. Con questo accordo l’Europa-fortezza ha ribadito l’ennesimo piano per arginare i flussi migratori, eludendo il dovere di accogliere le persone in fuga da persecuzioni e guerre, attraverso una politica estera in gran parte eretta su accordi stipulati con governi dittatoriali, incapaci di assicurare la salvaguardia dei propri cittadini. Vediamo quindi come l’Unione Europea riesca a esternalizzare i propri confini, delegandone la gestione a paesi esterni all’Unione stessa. Alla Turchia viene quindi affidato il ruolo di doganiere, che filtra il passaggio di persone.

Ma non solo. I paesi europei che confinano fisicamente con la Turchia, Grecia e Bulgaria, hanno già da anni, trovato “soluzioni” nel contenimento dei flussi migratori. Questi due Paesi hanno infatti avviato, rispettivamente nel 2011 e nel 2013, la costruzione di barriere di filo spinato, volte proprio a impedire il passaggio dei migranti provenienti dalla Turchia.

I 200 km di terra che uniscono la Grecia con la Turchia, sono segnati dal passaggio del fiume Evros, che rappresenta di per sé una barriera naturale. Ma i circa 10 km tra i paesi di Kastanies e Nea Vyssa, sono stati una via di entrata molto trafficata. Da qui la decisione di costruire una barriera di filo spinato, alta 4 metri e dotata di videosorveglianza costante. La costruzione è stata completata nel dicembre del 2012, per un costo totale di circa 3.3 milioni di dollari. La costruzione ha di fatto diminuito gli arrivi via terra, aumentando invece quelli diretti verso l’isola di Lesbo, a sole sei miglia dalla costa turca.

Fu in seguito al rafforzamento dei controlli di frontiera, che la Bulgaria annunciò la costruzione di una recinzione di reti metalliche e filo spinato di 160 km, munita di sorveglianza e agenti speciali. Una costruzione dal forte valore simbolico nei confronti di quell’Europa che la tiene ancora fuori dall’Area Schengen.

Sia il governo greco che quello bulgaro, hanno optato per la cementificazione dei loro confini, al fine di impedire ai migranti l’entrata in territorio europeo. Il dato rilevante è che queste politiche non fanno che rispondere a un’incalzante tendenza anti-migrazione, rappresentata da diversi partiti nel territorio. Nonostante queste costruzioni, fisiche o legislative che siano, i flussi non diminuiscono ma si adattano. È quindi presumibile aspettarsi nuove ondate migratorie, sempre più inumane e pericolose.

Martina Costa


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