Australia in fiamme

L’Australia brucia. Brucia un intero continente, bruciano foreste, case, esseri umani, animali, ecosistemi. Al momento sono 24 le vittime accertate da quando è iniziata la stagione degli incendi a settembre (14 solo in questa prima settimana del 2020), con oltre 8,4 milioni di ettari di terreno andati in fumo. Numeri da capogiro, che fanno paura e che sono tristemente reali. Le zone più colpite sono gli Stati di Victoria (dove si trova Melbourne) e del Nuovo Galles del Sud (dove si trova Sydney): solo in quest’ultima area sono bruciati più di 4 milioni di ettari di terreno.

Attualmente sono attivi ancora circa 200 incendi, anche se la situazione sembra essere leggermente migliorata grazie a un abbassamento delle temperature, e soprattutto a una diminuzione dei venti che limita il propagarsi delle fiamme. Questa tregua ha permesso di portare in salvo circa 300 persone che erano rimaste bloccate nei roadhouse lungo la Eyre Highway (autostrada che collega l’Australia occidentale con quella meridionale). Ma l’emergenza non è affatto rientrata, anche perché nei prossimi giorni le temperature dovrebbero tornare a superare i 40 gradi proprio nel Nuovo Galles del Sud.

L’Australia è un inferno in terra: a Canberra la qualità dell’aria è attualmente la peggiore al mondo, al punto che i residenti sono stati invitati a non uscire da casa, poiché i livelli di inquinamento atmosferico sono 20 volte superiori a quelli considerati pericolosi per la salute. Il cielo ha un colore misto a grigio, rosso, nero, marrone: uno scenario del genere, a dir poco apocalittico, non si era mai visto.

Ed è proprio nel pieno dell’emergenza che affiorano le domande per tentare di trovare una spiegazione a una tragedia così grande, anche perché in Australia gli incendi ci sono sempre stati, ma non avevano mai raggiunto una tale entità.

Sicuramente i fattori che hanno causato questa ondata di incendi boschivi sono stati molteplici. Il campanello d’allarme parte almeno tre anni fa, ovvero da quando la siccità nell’Australia orientale ha iniziato ad aumentare esponenzialmente, creando una quantità di materiale secco e altamente infiammabile.

Di solito il periodo dei roghi inizia nel mese di ottobre, ma nel 2019 (anno che ha visto precipitazioni scarsissime) gli incendi hanno cominciato a propagarsi già a partire da luglio, per poi toccare l’apice nel mese di novembre, e il 18 dicembre si è rivelata la giornata più calda mai registrata con una temperatura media di 41,9 gradi.

Una combinazione letale, dunque, tra siccità e caldo record, ha fatto sì che in questi mesi la situazione degli incendi in Australia assumesse dimensioni incontrollabili.

Ma forse era un tragedia annunciata. Già nel 2018, infatti, l’Australian Government Bureau of Meteorology aveva avvertito che avremmo assistito a «ulteriori aumenti della temperatura del mare e dell’aria, con più giorni caldi e ondate di calore, un ulteriore innalzamento del livello del mare e acidificazione degli oceani, minori precipitazioni (ma molto più intense rispetto al passato) in tutta l’Australia meridionale accompagnate da un incremento dei periodi di siccità». Alla luce di ciò, il collegamento tra incendi e riscaldamento globale, cambiamenti climatici, ed emergenza ambientale pare evidente. Ovviamente, non potevano mancare le polemiche.

Il primo ministro Scott Morrison è stato duramente criticato per aver sottovalutato gli avvertimenti degli esperti e per non aver saputo gestire il disastro che stava accadendo nella sua terra. È dal 1996 che i governi conservatori australiani cercano di tergiversare sugli accordi internazionali sui cambiamenti climatici per favorire le industrie di combustibili fossili del Paese, e lo stesso Morrison è stato accusato di non aver dato fede agli impegni presi in merito al clima, considerando anche il fatto che l’Australia si è classificata all’ultimo posto su 57 Paesi per le azioni sul cambiamento climatico, ed è ben lontana dal ridurre le emissioni del 26-28% entro il 2030.

Nonostante i dati parlino chiaro, il primo ministro non ha esitato ad affermare che una buona fetta di colpa sarebbe proprio degli ambientalisti, che avrebbero bloccato i parchi nazionali e impedito di ripulire i boschi, cosa che avrebbe quantomeno arginato in parte i danni causati dagli incendi.

Affermazione che, a detta degli esperti, è suonata a dir poco ridicola, poiché la prevenzione e la riduzione dei pericoli avviene attuando azioni e programmi precisi, assumendo personale addestrato ad hoc (e non semplici volontari, come sta accadendo adesso), coordinandone le attività in tutto il Paese e destinando fondi specifici per queste emergenze.

Ad ogni modo, mentre gli uomini giocano la loro partita di ping pong passandosi le colpe e le responsabilità, la terra continua a bruciare; ma soprattutto, gli animali continuano a morire. Sono più di 500 milioni gli animali morti in questi mesi in Australia, terra dalle molte specie endemiche, cioè presenti solo ed esclusivamente in questo continente.

Uccelli, mammiferi, rettili: non solo koala, sicuramente tra i più colpiti (sono circa 8.000 gli esemplari morti, ovvero un terzo dell’intera popolazione), ma anche specie meno note come il bandicoot marrone o il Potoroo dai piedi lunghi, per non parlare di rane, pipistrelli e insetti che non rientrano nella stima. Una fauna compromessa per sempre, poiché chi è riuscito a sopravvivere, ha perso inevitabilmente il proprio habitat, e il cibo di cui si nutre. Una tragedia dalle dimensioni incalcolabili, la cui conclusione sembra ancora lontana, che fa prendere inquietante consapevolezza della impotenza umana di fronte al sopravvento della natura.


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