Sylvia Plath, la bellezza nel dolore

La connessione che c’è tra l’artista e il suo tormento interiore è qualcosa che ammalia il pubblico, il genio e follia che si incontrano dando vita a qualcosa di nuovo e straordinario ed è con questo connubio che possiamo descrivere Sylvia Plath, a 60 anni dalla sua morte.


Sylvia Plath nasce nel 1932 a Boston da genitori colti, entrambi professori: il padre di entomologia, la madre di lingue. La famiglia instilla fin da subito in lei e nel fratello Warren una profonda passione nei confronti dello studio e Plath scrive infatti la sua prima poesia nel 1940, a soli otto anni. Nello stesso anno, il padre muore: questo lutto segnerà a vita l’autrice, angustiata dalla mancanza del genitore, venuto a mancare precocemente. 

Al liceo, così come allo Smith College, frequentato grazie a una borsa di studio, Plath è una studentessa brillante e tenace che continua a pubblicare poesie e racconti, fino a ottenere un posto di redattrice ospite presso la rivista Mademoiselle di New York. È in questo periodo che la poetessa tenta per la prima volta il suicidio e viene mandata in una clinica psichiatrica. Alcuni riferimenti a questi avvenimenti biografici possono essere trovati nel romanzo The Bell Jar, pubblicato nel 1963. 

Mesi dopo, Plath torna allo Smith College, dove continua la stesura della sua tesi su Dostoevskij, lavoro che le permetterà di laurearsi con lode nel 1955 e di ottenere una borsa di studio per l’Università di Cambridge.

È proprio qui che nel 1956 Plath incontra a una festa Ted Hughes, futuro poeta britannico. La coppia di aspiranti scrittori si sposa poco dopo, nel giugno 1956. L’anno successivo, Plath e Hughes si trasferiscono negli Stati Uniti, dove lei insegna composizione inglese allo Smith College per un anno e si iscrive a un corso di scrittura con Robert Lowell, tramite il quale conosce la scrittrice Anne Sexton. Nel 1960, Plath pubblica il suo primo volume di poesie, Colossus and Other Poems. Poco dopo il ritorno dei due autori nel Regno Unito, Plath dà alla luce due figli, Frieda e Nicholas, nati rispettivamente nel 1960 e nel 1962.

sylvia plath

Nel 1962 Plath e Hughes si separano e la donna si trasferisce con i figli in un appartamento nel quartiere londinese di Primrose Hill, dove cerca di costruire una nuova vita per sé e per i suoi bambini.

Il binomio dolore-creatività 

Il momento successivo alla separazione da Hughes è un periodo di intensa creatività e prolifica scrittura per l’autrice, al culmine del quale troviamo October poems, che le assicureranno la posizione di una delle più significative voci letterarie del Novecento. In soli cinque mesi, Plath scrive Daddy, Lady Lazarus, Poppies in July e Ariel

Nonostante la sua produttività, la poetessa continua a sprofondare ulteriormente nel buio baratro della depressione, non riuscendo a venirne fuori. Plath si suicida l’11 febbraio 1963, due settimane dopo la pubblicazione del suo romanzo, The Bell Jar.

«Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura».

Sono in pochi a non riconoscere questa citazione di Edvard Munch, con la quale il pittore racconta la nascita della sua opera più nota, L’urlo. Ed è anche difficile non pensare che la spiccata sensibilità di Vincent Van Gogh, Virginia Woolf o Edgar Allan Poe non sia stata influenzata dalle loro condizioni mentali. Eppure, nell’idealizzazione del dolore degli altri, spesso è come se dimenticassimo che anche dietro ai grandi nomi si nascondono delle persone: esseri umani in carne e ossa con le loro fragilità, passioni e sofferenze.

Le opere che racchiudono in pieno l’animo di Sylvia Plath

Tra le opere di Plath, sono chiaramente i Diari a dare l’immagine più recondita della scrittrice: leggendoli possiamo percepire il suo lato più intimo, entrare nella sua vita e rovistare tra i suoi pensieri, rischiando di rimanere quasi disturbati dalla schiettezza con cui Plath parla di solitudine e di morte, mischiandole al racconto della sua quotidianità, ai sogni di una giovane donna.

Ciò che colpisce il lettore è l’insicurezza di Plath nei confronti della sua stessa scrittura, la determinazione, quasi ossessiva, a voler raggiungere quell’obiettivo di perfezione, sempre visto come troppo lontano. Il tormento, la rabbia e la frustrazione del suo non «eccellere in uno dei mezzi di interpretazione della vita» riempiono le pagine delle sue memorie, lasciando al lettore un profondo senso di amarezza, di tenerezza nei confronti di un essere umano che non credeva appieno nelle sue immense doti.

Anche The Bell Jar, La Campana di Vetro, in quanto romanzo semi-autobiografico, è molto utile ai fini della comprensione dell’io della poetessa. Divenuto ormai un classico della letteratura americana, il libro narra la storia di Esther Greenwood: ragazza brillante, bella e talentuosa, ma che sta lentamente e implacabilmente crollando, trascinata nel profondo abisso della depressione. Plath trascina magistralmente il lettore nel crollo della protagonista, penetrando negli angoli più oscuri della psiche con una tale intensità da lasciare un segno permanente in chi legge quest’opera.

Donna colta, intelligente, ostinata, ma forse troppo sensibile per sopportare il mondo in cui viviamo, Sylvia Plath è fortemente associata alla sua stessa morte: una vita spezzata troppo presto. Nonostante la vita – seppur breve – travagliata, Plath ci ha donato un grande e prezioso patrimonio. Il suo valore, poi, aumenta se pensiamo che quella da lei prodotta è una bellezza che sboccia dal dolore. A cosa serve l’arte, se non a trasformare qualsiasi emozione, pensiero e situazione in meraviglia?

sylvia plath grave

Stare sdraiata è per me più naturale. / Allora il cielo ed io / siamo in aperto colloquio, / e sarò utile il giorno / che resto sdraiata per sempre: /finalmente gli alberi mi toccheranno, / i fiori avranno tempo per me. (“Io sono verticale”, Sylvia Plath, 1961)


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