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Rooming-in, quando un diritto diventa un incubo

La vicenda del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma sta portando la classe politica e l’opinione pubblica a riflettere sulla gestione del rooming-in e sulle sue criticità.


La vicenda del neonato morto all’ospedale Pertini di Roma nella notte tra il 7 e l’8 gennaio scorso ha portato prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica una serie di problematiche legate al cosiddetto rooming-in, problematiche sino ad ora poco conosciute e sicuramente non affrontate a sufficienza, complice uno strato fin troppo spesso di superficialità, mista a vergogna e ignoranza, difficile da scalfire.

Cos’è il rooming-in?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce il rooming-in come quella pratica che prevede “la permanenza del neonato e della madre nella stessa stanza in un tempo più lungo possibile durante le 24 ore, salvo quello dedicato alle cure assistenziali”.

Ciò consentirebbe di creare un legame tra il piccolo e la madre, che ridurrebbe i livelli di stress del neonato, favorendo il contatto tra genitore e figlio e contribuendo a stabilizzare anche l’umore della madre, riducendo il tasso di depressione post-partum.

Proprio per questi suoi effetti benefici, sia sul neonato che sulla madre, il rooming-in viene promosso da istituti specializzati, agenzie e organizzazioni internazionali (come, appunto, l’OMS) e anche da quelle nazionali, come il Ministero della Salute, auspicando che ogni punto nascita e di assistenza al neonato consenta di praticare il rooming-in, cioè permetta alla madre di stare 24 ore su 24 nella stessa stanza col figlio appena nato. 

A riprova dei suoi effetti positivi, il rooming-in è stato addirittura inserito tra i dieci step fondamentali per il successo nell’allattamento nella dichiarazione congiunta tra OMS e Unicef.

Ma non è tutto oro quello che luccica: questo è solo un lato della medaglia, quello bello, edulcorato, lucente.

Le criticità del rooming-in

Il rooming-in è, purtroppo, costellato da parecchi lati oscuri, che spesso vengono ignorati – consapevolmente o meno – e non presi abbastanza in considerazione.

Innanzitutto, esso subentra in un momento estremamente delicato per una donna, quale quello delle ore immediatamente successive al parto; ore in cui una donna si trova in condizioni di estrema fragilità, sia fisica (magari dopo aver affrontato ore e ore di travaglio, o un cesareo d’urgenza), sia psicologica: assalita dai dubbi, dal pensiero di essere incapace di prendersi cura del proprio figlio, dai sensi di colpa nel chiedere aiuto.

È proprio così che il rooming-in, un diritto fondamentale per le donne, da inserire nella sfera più ampia di altri diritti, in primis quello di vivere serenamente il parto e la maternità – e quindi, in senso lato, anche il diritto alla salute – finisce col diventare un’imposizione, trasformandosi in un incubo.

Questo è il frutto di una società distorta che vede una neomamma come una supereroina, capace di non dormire per giorni interi, sopportando il dolore lancinante dei punti che tirano, mentre si prende cura di un neonato che dipende totalmente da lei, e che lei sa esattamente come accudire, in virtù di una “scienza infusa” che si svilupperebbe assieme al famoso “istinto materno”.

Tutto ciò interamente da sola, senza alcun tipo di supporto, neppure dai familiari (situazione peggiorata ulteriormente a causa delle restrizioni dovute al Covid-19, che hanno limitato l’ingresso di persone nei reparti).

Ciò che sarebbe fondamentale comprendere è che, se è legittimo che una donna richieda il rooming-in per favorire il contatto col proprio figlio, è in egual modo legittimo da parte di quest’ultima chiedere assistenza se si trova in difficoltà, se ha bisogno di riposare, senza timore di essere additata come una cattiva madre, e soprattutto senza essere ignorata, se chiede di lasciare il figlio al nido giusto qualche ora: in una parola, essere nelle condizioni di esercitare un diritto, troppe volte calpestato.

La violenza ostetrica

Le criticità e la cattiva gestione del-rooming in, possono inserirsi nell’ampia sfera di quella che viene definita violenza ostetrica, per tale intendendosi “un insieme di comportamenti che hanno a che fare con la salute riproduttiva e sessuale delle donne, come l’eccesso di interventi medici, la prestazione di cure e farmaci senza consenso o la mancanza di rispetto del corpo femminile e per la libertà di scelta su di esso”.

A tal proposito, l’OMS ha individuato una serie di atteggiamenti e condotte che possono essere considerate traumatiche, e quindi inserirsi nella violenza ostetrica: abusi fisici e verbali, umiliazione, procedure mediche coercitive o non autorizzate, mancanza di riservatezza o di un consenso realmente informato, il rifiuto di offrire terapie per il dolore, la trascuratezza nell’assistenza al parto.

In Italia la situazione appare abbastanza preoccupante. Un’indagine del centro collaboratore dell’OMS dell’istituto Burlo Garofalo di Trieste ha mostrato che su 4824 donne che hanno partorito tra marzo 2020 e febbraio 2021, il 78,4 per cento non ha potuto essere assistito dal partner; il 39,2 per cento non si è sentito totalmente coinvolto nelle scelte mediche; il 24,8 per cento non si è sempre sentito trattato con dignità; e il 12,7 per cento ha dichiarato di aver subito abusi.

Ancora, un’indagine di Doxa del 2017, commissionata dall’Osservatorio sulla violenza ostetrica in Italia (OvoItalia), ha fatto emergere che circa il 21 per cento delle madri italiane ha subito una forma di violenza ostetrica durante il parto, e il 41 per cento ha dichiarato di essere stato vittima di pratiche lesive della propria dignità psicofisica.

Senza contare il fatto che spesso le donne stesse non riescono a riconoscere di essere state vittime di violenza ostetrica o di abusi connessi ad essa (e quindi denunciarli), poiché molte condotte vengono considerate “normali” perché ormai radicate nel “sistema”, nel modo distorto delle procedure ospedaliere e della società stessa di approcciarsi alla gravidanza, alla maternità e alla figura della donna come madre.

Il dramma delle carenze ospedaliere

Ma i problemi non finiscono qui. Senza voler giustificare la poca esperienza e sensibilità nel gestire il rooming-in, si deve riconoscere che la situazione in Italia in merito alla carenza di personale ospedaliero è estremamente preoccupante: reparti troppo pieni, emergenze da gestire, turni massacranti, fanno sì che le richieste di aiuto delle neomamme (che apparentemente “stanno bene”) passino in secondo piano, sfociando in tragedie come quella del Pertini.

A tal proposito, il ministro della salute Orazio Schillaci ha annunciato l’intenzione di mettere in atto «tutte le misure necessarie per garantire piena sicurezza delle partorienti e dei bambini», esprimendo soprattutto l’impegno a «promuovere ogni intervento utile ad assicurare adeguate condizioni di lavoro alle ostetriche e al personale sanitario addetto ai reparti di ostetricia e ginecologia».

Stiamo, quindi, in attesa di vedere se effettivamente qualcosa cambierà e se l’ennesimo diritto fondamentale violato riuscirà a essere garantito e rispettato, consapevoli al momento che l’unica colpa è da addebitare a una società ancora incapace di fornire adeguata tutela a dei diritti imprescindibili.


Immagine in copertina di Benjamin Chan

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Silvia Scalisi

Laureata in Giurisprudenza, alla passione per il diritto associo quella per la letteratura, il cinema e la musica.