Iran, la morte di Mahsa Amini e la mobilitazione popolare
La libertà ha un unico punto di vista: quello di chi se la vede sottrarre. La morte di Mahsa Amini è stato un furto nei confronti di tutte le donne iraniane, e ora lo Stato dovrà pagarne le conseguenze.
Sono passate più di due settimane da quando Mahsa Amini, arrestata dalla polizia alla stazione di Teheran perché stava indossando il velo “impropriamente”, moriva in circostanze ancora poco chiare.
Mahsa era in vacanza con la famiglia quando, davanti agli occhi dei propri cari, veniva prelevata per andare a seguire un corso su come indossare in maniera corretta il suo hijab nel carcere di Teheran. Quello è stato l’ultimo luogo visto dalla ventiduenne kurda.
I portavoce della Repubblica Islamica dell’Iran hanno dapprima fatto riferimento a presunte patologie precedenti di cui soffriva la ragazza, che avrebbero provocato un infarto durante il corso di “etichetta del velo”.
Il fratello di Mahsa, che la aspettava fuori dalla struttura, ha sentito delle urla, ha visto sfrecciare un’ambulanza accanto a lui, poi più niente.
Sono passate più di due settimane e, da allora, sono morte 133 persone durante le rivolte in nome di Mahsa, in nome della verità, della giustizia e, soprattutto, della libertà di scegliere. Tra le vittime troviamo ragazze come Hadis, che a 23 anni è stata uccisa da sei proiettili. Ad Hananen, sua coetanea, ne è bastato uno. Centinaia sono stati poi gli arresti, tra i quali contiamo almeno 17 giornalisti, tra cui Nilufar Hamedi, la giornalista che per prima aveva denunciato la storia di Mahsa.
Nonostante gli incessanti tentativi da parte delle forze dell’ordine di reprimere le proteste, i giovani iraniani non danno segni di voler rinunciare a una lotta che ormai ha oltrepassato i confini del Paese. Sabato 1 ottobre si sono tenute proteste in tutto il mondo in solidarietà con la crescente rivolta in Iran per chiedere maggiore libertà e per protestare contro la morte di Mahsa Amini. Manifestazioni con lo slogan “Donne, vita, libertà” si sono svolte in molte grandi città, tra cui Auckland, Londra, Melbourne, New York, Parigi, Roma, Seoul, Stoccolma, Sydney e Zurigo.
Lo stesso giorno, con l’inizio ufficiale dell’anno accademico, le proteste si sono spostate anche all’interno delle università iraniane. L’università Sharif, una delle più prestigiose del Paese, è stata circondata dalle milizie paramilitari. I ragazzi stavano manifestando da settimane per chiedere il rilascio di alcuni compagni arrestati nelle ultime manifestazioni.
Lunedì 3 ottobre l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran, ha tenuto un discorso in cui puntava il dito contro USA e Israele, sostenendo fossero loro i mandanti delle proteste. Khamenei, tuttavia, dimentica il passato dell’Iran, un Paese in cui i giovani hanno sempre lottato per la libertà di scelta e l’emancipazione da regole troppo rigide.
Le precedenti proteste, per le elezioni fraudolente nel 2009 e l’aumento del carburante nel 2019, sono state represse con la violenza, ma qualcosa è cambiato. Per la prima volta dalla fondazione della Repubblica Islamica dell’Iran, l’attuale rivolta ha unito ricchi e poveri, curdi, turchi e altre minoranze etniche, tutti uniti verso gli obiettivi di giustizia e libertà.
Il desiderio del regime di portare le lancette indietro nel tempo è utopia, non tiene conto dello sviluppo degli ultimi anni, del livello di istruzione raggiunto, della globalizzazione e di tutti quei fattori, endogeni ed esogeni, che ci richiedono un’evoluzione all’interno del Paese. Ciò che dovrebbe preoccupare il governo è la possibilità che queste proteste, disparate e senza leader, inizino a coagularsi in un movimento nazionale con obiettivi specifici.
Perché il modello politico sopravviva, il regime deve accettare la creazione di un nuovo patto sociale, altrimenti le proteste potrebbero trasformarsi in rivolte e le rivolte in rivoluzione.
Immagine in copertina di Ideophagous