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Elezioni in Bulgaria, vittoria a metà per il centrodestra

Il 2 ottobre i bulgari sono tornati alle urne per la quarta volta in 18 mesi. Con il 25% dei voti, il partito dell’ex premier Borissov (GERB) dovrà trovare una nuova coalizione di governo, in una situazione politica molto frammentata.


Si sono svolte il 2 ottobre le ultime elezioni in Bulgaria, le quarte nel giro di 18 mesi. La crisi di governo, che va avanti da un paio di anni ormai, sembra non arrestarsi nemmeno con questa nuova tornata elettorale. 

GERB, il partito dell’ex premier Boyko Borissov che ha ottenuto il maggior numero di voti col 25%, non ha raggiunto la maggioranza, e la possibilità di una coalizione con gli altri partiti sembra difficile da realizzare. 

Il partito di centrodestra GERB, acronimo di “Cittadini per lo Sviluppo Europeo per la Bulgaria”, era proprio quello che i cittadini volevano destituire durante le prime proteste del 2020, dopo 12 anni al governo segnati da storie di mafia e corruzione.

Alle prime elezioni di aprile 2021, il partito dell’ex premier Boyko Borissov non era riuscito ad ottenere la maggioranza e a formare una coalizione, ragion per cui si era tornati a votare a luglio dello stesso anno. In quell’occasione si era fatto strada il partito ITN, We Are Such a People, dello showman Stanislav Trifonov, che prometteva grandi cambiamenti nella politica bulgara. I cittadini erano però rimasti delusi dopo che, nonostante i molti voti ottenuti, il partito non era riuscito a formare un governo.

Solo a novembre 2021, alla terza elezione, si era finalmente arrivati ad un accordo dopo la vittoria di We Continue The Change, un partito pro EU e pro NATO formatosi da poco e guidato dal ministro Kiril Petkov. Quest’ultimo aveva formato una coalizione composta da We Are Such a People, Democratic Bulgaria e il Bulgarian Socialist Party, iniziando il mandato a gennaio 2022.

Kiril Petkov e Volodymyr Zelensky – ©EPA-EFE/SERGEY DOLZHENKO

Ma a sei mesi dall’inizio del mandato, a giugno 2022, Trifonov (We Are Such a People) ha annunciato il suo ritiro dalla coalizione, innescando la nuova crisi di governo. La decisione sarebbe stata presa a causa di disaccordi sulla spesa del budget e sull’apertura all’ingresso nell’UE della Macedonia del Nord, sul quale la Bulgaria aveva posto un veto. Una disputa identitaria che si basa sul mancato riconoscimento da parte dei bulgari sia del territorio macedone che della sua lingua, considerata solamente un dialetto bulgaro. 

Petkov si è dunque dovuto arrendere al voto di sfiducia – supportato anche da GERB e dal Partito Socialista – dando così il via all’ennesima fase di instabilità politica per il governo di Sofia.

Il ritorno di GERB non sorprende molto se si pensa che in realtà non ha mai lasciato il potere, poiché molte delle regioni bulgare sono effettivamente ancora governate proprio dal partito di Boyko Borissov, che ha riconquistato consensi anche nei piccoli paesi. 

Bisogna però anche considerare che, come era prevedibile, moltissimi cittadini che avevano già espresso un malcontento generale per la mancanza di reali cambiamenti negli ultimi mesi non si sono presentati alla urne, facendo registrare il 38% di affluenza, il più basso in Bulgaria dagli anni ‘80. Questa percentuale potrebbe essere confermata o addirittura diminuire nel caso in cui si tornasse a votare tra qualche mese. 

Attualmente è stata fissata per il 19 ottobre la prima seduta del nuovo parlamento, in attesa della formazione di un’alleanza per il prossimo governo. Nel frattempo, il partito di Boyko Borissov – accusato negli anni di aver sperperato i fondi europei – sta cambiando strategia, passando da una posizione filo-russa a una collocazione euro-atlantica: oltre che a entrare nell’euro e trovare soluzioni concrete alla crisi economica ed energetica, il partito è pronto a mandare armi all’Ucraina senza abbandonare il dialogo con Putin.

Sarebbe naturale, quindi, allearsi con We Continue The Change – il secondo partito col 20% dei voti – e con il Partito Democratico, che si è sempre battuto contro la corruzione. Ma Petkov ha già dichiarato che non intende formare un’alleanza con GERB e non cederà ad alcun compromesso.

Ciò lascerebbe come unica possibilità un’alleanza con il Partito Socialista – che ha raggiunto il 9% – e DPS (The Movement for Rights and Freedom), espressione della minoranza turca, arrivato al 13%. Il movimento da tempo non gode di una buona reputazione e un’eventuale alleanza potrebbe minare la nuova immagine che GERB sta provando a costruire: oltre ai precedenti scandali legati a casi di corruzione, DPS è già stato nuovamente accusato di compravendita di voti in alcune cittadine bulgare.

Il partito Revival (Vazrazhdane), con il suo 10%, potrebbe costituire un’altra opzione per la coalizione, se non fosse che si tratta di un partito di estrema destra filorusso che non gioverebbe alle nuove manovre pro Occidente di Borissov. 

Il partito We are such people di Trifonov, che aveva dato il via alla crisi di governo, non ha raggiunto invece il 4% necessario a entrare in parlamento. Ha superato invece la soglia di sbarramento Bulgarian Rise, partito nazionalista guidato dall’ex ministro della Difesa Stefan Yanev, cacciato dal governo a febbraio dopo aver espresso delle posizioni vicini al Cremlino.

Chiunque governerà dovrà comunque prendere in considerazione la situazione attuale in cui versa il Paese, che si ritrova a dover combattere un’inflazione che ad agosto ha raggiunto il 17%, con la compagnia russa Gazprom che ha interrotto anche la fornitura di gas. 

La scorsa settimana il presidente Radev, eletto a novembre 2021, ha esortato i partiti a trovare un accordo quanto prima, per il bene del Paese. «Mi auguro che i partiti torneranno presto a focalizzarsi sui reali problemi dei Bulgari: la povertà, i prezzi, il budget e la protezione delle persone socialmente svantaggiate». Radev ha anche menzionato l’intenzione del Paese di entrare nell’area Schengen.

A questo punto, dunque, i partiti dovranno scegliere se scendere a compromessi e formare una nuova coalizione di governo, oppure prolungare questo circolo vizioso di instabilità politica e sociale, in attesa di nuove elezioni la prossima primavera.


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