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Contestazioni di Palermo contro Giorgia Meloni: la repressione sarà prassi?

Gli eventi di Palermo a margine del comizio di Giorgia Meloni del 20 settembre sono l’ennesimo esperimento repressivo che dimenticheremo? Il punto di vista di chi è stato dentro i fatti.


Prima della conclusione della campagna elettorale del centrodestra che ha visto a Roma gli alleati riuniti per l’ultimo approdo del tour del fronte azzurro, l’episodio di Palermo e del comizio di Giorgia Meloni in piazza Politeama ha fatto discutere molto. Ci si è chiesti se la repressione decisa, avvenuta il 20 settembre tra le strade del centro di Palermo, sia solo un accenno al rafforzamento delle scelte securitarie, soprattutto di piazza, del prossimo – ipotetico – governo di destra o se sia solo tutta una suggestione. 

Repressione, uno stile inconfondibile

Prima di ripercorrere brevemente i fatti di Palermo – verificabili agevolmente tramite la valanga di video presenti sul web – è doverosa una riflessione e un passo indietro. 

In Italia, ogni qualvolta deve essere garantita una “pacifica” campagna elettorale ai candidati di questo o quell’altro fronte, sembra non sia permesso il dissenso perché costituisce un elemento turbativo dello svolgimento dell’attività democratica di promozione politica. E questo ha dato modo, in passato e fino a pochi giorni fa, di attuare una dura repressione di ogni contestazione, anche piccola, presente ai margini dei comizi elettorali (in particolare della candidata di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, considerata il nemico numero uno delle sinistre). Ma non è proprio la possibilità di manifestare dissenso l’attività democratica per eccellenza?

L’Italia è un Paese che ricorda sempre troppo poco, ed è un Paese in cui si passa repentinamente dall’allarmismo per l’instaurazione di una dittatura all’indifferenza su episodi preoccupanti, giudicati come “goliardate”, come raduni colorati (di nero) da orgogliosi saluti romani. 

Abbiamo già dimenticato, ad esempio, durante il primo governo Conte, quello giallo-verde, le gru dei Vigili del Fuoco impegnate a rimuovere lenzuoli e striscioni appesi fuori dalle abitazioni colpevoli di recitare messaggi poco lusinghieri all’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini; o ancora, l’allontanamento di un uomo da piazza del Popolo, a Roma, durante un comizio della Lega perché portava con sé un cartello che recitava il messaggio «ama il prossimo tuo».

Se è questo lo stile dei nuovi governi di destra – l’intervento sulle abitazioni dei dissidenti, l’utilizzo delle Forze dell’Ordine per limitare il proprio fastidio nei confronti della pubblica contestazione – siamo davanti a un corto circuito tra chi urla in piazza e chi può urlare più forte dal palco, in cui a perdere è senza dubbio il confronto democratico. Un luogo, la politica nello specifico, dove non serve essere una «cintura nera di urla», riprendendo la definizione gridata (appunto) sul palco palermitano da Giorgia Meloni per rispondere proprio alle contestazioni nei pressi del suo “inviolabile” comizio.

Cosa è successo a Palermo e (soprattutto) perché

La piazza del comizio di martedì a Palermo risultava sostanzialmente blindata, e i manifestanti hanno tentato più volte di avvicinarsi al luogo del comizio di Giorgia Meloni. È proprio al termine delle contestazioni – tenute ben lontane dal comizio, represse sul nascere nonostante l’evidente impianto pacifico – che sono state attuate le cariche della Celere in un’azione giudicata da più osservatori confusa, disorganizzata e immotivata. In primo luogo per il momento, ovvero la conclusione delle contestazioni alla leader di FdI; in secondo luogo, per il numero e per gli intenti dei contestatori, sotto il centinaio, perfettamente riconoscibili e provenienti da tanti e diversi contesti, studenteschi, femministi, ecologisti, LGBTQIA+ (persino alcuni passanti e disinteressati cittadini si sono fermati a urlare alla Polizia di «lasciare in pace quei bravi picciotti [ndr. ragazzi]» durante i momenti di forte tensione). Tutti immediatamente bollati da Meloni come «i violenti dei centri sociali».

Pochi giorni prima del comizio palermitano Giorgia Meloni aveva attaccato la ministra dell’Interno Lamorgese in un video pubblicato sui suoi canali social, definendola «incapace», facendo cenno anche a una conversazione telefonica avvenuta tra le due privatamente per richiedere interventi più decisi durante le manifestazioni di Fratelli d’Italia, ultimamente le più contestate. 

La ministra Lamorgese ha quindi firmato una circolare indirizzata alle prefetture in cui chiede di intensificare le attività di controllo. Eppure, come testimoniato nei fatti di Palermo, così come in quelli di altre città tra cui anche Caserta e il famoso caso di Cagliari – in cui alcuni contestatori sono stati malamente presi a pedate dagli agenti della Guardia di Finanza – le manifestazioni di dissenso sono state tutte pacifiche, nell’organizzazione e nella gestione: non erano previsti volti coperti, non c’era nessun oggetto a scopo offensivo, non erano presenti caschi, aste o bastoni di alcun tipo.

Pare che Giorgia Meloni si infastidisca quando perde il filo del discorso durante i suoi comizi. Per garantire che la candidata di punta del fronte azzurro non si “perda”, è stato necessario chiedere all’attuale governo, nella persona della ministra Lamorgese – non un governo fascista, non un governo Meloni, non un governo giallo-verde – la stretta sulle contestazioni di piazza durante i comizi di FdI. 

Citando testualmente, la direttiva ministeriale richiede la predisposizione di «adeguati servizi di osservazione e filtraggio, aventi il precipuo scopo di individuare gruppi di violenti e facinorosi intenzionati a porre in essere azioni illegali». Ebbene, la contestazione verbale sembra essere diventata illegale per il pomeriggio e la sera del 20 settembre a Palermo (e nelle altre città toccate dai comizi di Giorgia Meloni). A pagarne, oltre ai manifestanti, sono stati anche coloro che devono riportare i fatti, i giornalisti. 

Alessia Candito, inviata di Repubblica Palermo, era presente il 20 settembre durante le azioni di repressione delle Forze dell’Ordine. Un comunicato pubblicato su Repubblica riporta come la giornalista sia stata «colpita da due manganellate e fatta cadere a terra mentre documentava l’intervento della polizia nei confronti di alcuni manifestanti scesi in piazza per contestare il comizio di Giorgia Meloni – aggiungendo inoltre che – Alessia si è più volte qualificata come giornalista, ma nonostante questo le è stato impedito con violenza dalla polizia di svolgere il proprio lavoro». 

Contestazione, bene irrinunciabile

Considerando sempre che questa modalità di “democrazia in un senso” – dove a pretenderla e averla sono solo gli esponenti microfonati e sul palco – vada a discapito dell’approccio pacifico di tutte queste contestazioni avvenute nelle ultime settimane in tutto lo Stivale, ci si chiede se questo episodio avvenuto a Palermo possa costituire non solo un precedente, l’ennesimo, ma una sorta di stretta autoritaria nelle piazze che possa diventare prassi per un futuro governo Meloni-Salvini-Berlusconi (quest’ultimo, ricordiamolo, già al centro di un’amministrazione della sicurezza a dir poco infelice nel 2001 durante la spietata gestione del G8 di Genova).

Qualunque sia la percentuale che un candidato prenderà alle consultazioni elettorali, questo – ebbene sì, anche Giorgia Meloni che non gradisce essere interrotta dai cori – non salirà mai al governo con una percentuale tale da rappresentare la maggioranza della popolazione italiana. Per questo motivo possiamo essere sicuri, ora e per sempre, che avverranno altre contestazioni, alcune più partecipate, altre meno, ma avverranno, per il semplice motivo che un governo democratico non è esente dalle opposizioni, soprattutto quando queste sono pacifiche. 

Non sarà un tema popolare quello della repressione da parte delle Forze dell’Ordine, perché si tende a derubricare ogni accaduto, ogni carica della Polizia in questi contesti, come un “classico” delle manifestazioni, soprattutto quando queste sono partecipate in larga parte da giovani. Ma dobbiamo interrogarci, adesso ancora di più, se vogliamo una popolazione silenziosa e inerte, o se sia il caso di guardare più al significato autentico di democrazia piuttosto che allo spauracchio opaco di una dittatura fascista.


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Daniele Monteleone

Caporedattore, responsabile "Società". Scrivo tanto, urlo tantissimo. Passione irrinunciabile: la musica. Ho un amore smisurato per l'arte, tutta.