L’India e il divieto di indossare il velo nelle scuole pubbliche

Dallo Stato del Karnataka in India è partito il divieto di indossare l’hijab durante le lezioni, imponendo alle ragazze di privarsi della loro identità e acuendo le tensioni sociali tra hindu e musulmani.


Si susseguono da diverse settimane numerose proteste in India contro il divieto di indossare l’hijab a scuola e nelle università. Dal 5 febbraio nello stato del Karnataka molti istituti scolastici hanno imposto questa nuova regola con il supporto del governo nazionalista hindu guidato dal partito Bharatiya Janata Party (BJP), il quale ha dichiarato che «Indumenti che interferiscono con l’uguaglianza, l’integrità e la legge non dovrebbero essere indossati».

Il motivo principale di questa decisione è quello di non mostrare simboli religiosi in luoghi pubblici come scuole e università per non accentuare eventuali differenze tra studenti e studentesse. 

Un’altra tesi usata a favore di questa nuova regola sostiene che l’hijab non fa parte dell’uniforme scolastica, ragion per cui può essere indossato fuori le aule ma non dentro.

In realtà, il divieto vìola apertamente il diritto di esprimere liberamente le proprie credenze e la propria religione, e il diritto di accedere all’istruzione senza alcuna discriminazione, diritti sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani. Questa proposta, inoltre, non farebbe altro che accentuare i conflitti già presenti tra hindu e musulmani, questi ultimi divenuti ormai bersaglio facile dei politici nazionalisti.

Le proteste in difesa del diritto di portare l’hijab in India

Già lo scorso 28 dicembre era stato vietato nel college di Udupi, nello Stato del Karnataka, l’ingresso a sei studentesse dopo il loro rifiuto di togliersi il velo. Come conseguenza, le ragazze sono state costrette a seguire le lezioni all’aperto. 

Da questo episodio sono iniziate una serie di proteste, e l’avvocato delle studentesse ha deciso di appellarsi alla Corte suprema per deliberare sul caso.

Più di 500 tra studenti e studentesse si sono attivati in difesa delle ragazze musulmane e del loro diritto a indossare l’hijab, protestando per strada e facendo circolare varie petizioni online. «Sostengono di voler separare la religione dalle istituzioni, ma allora perché stanno prendendo di mira solo le donne musulmane? Perché non rimuovono le statue religiose nelle scuole?» si chiede Hasina Khan, membro fondatore di un collettivo di Mumbai che difende i diritti delle donne musulmane. 

Non sono tardate le reazioni da parte di alcuni membri della comunità hindu, che hanno iniziato a puntare ragazze musulmane che indossano il velo di fronte l’università per molestarle. Una studentessa, insieme ad altre cinque ragazze, è stata accerchiata e importunata da un gruppo di ragazzi hindu. Sono state perfino fatte trapelare informazioni personali di sei studentesse musulmane che da giorni protestavano attivamente contro il nuovo divieto, mettendo in rete le loro foto e dati personali.

Adesso le proteste sul velo si stanno estendendo anche in altri Stati indiani, come in Uttar Pradesh, uno degli Stati più popolosi dell’India nel quale il 20 per cento della popolazione totale è musulmana (percentuale più elevata della media nazionale). Proprio in questo Stato, un gruppo di uomini ha fatto irruzione nel Dharma Samaj College richiedendo un divieto completo sull’hijab.

Per evitare ulteriori polemiche, molte scuole e università hanno deciso direttamente di chiudere per qualche giorno gli istituti e mandare gli studenti a casa, sperando di far calmare le acque. Nonostante ciò, le manifestazioni non si sono arrestate e le petizioni sono continuate a circolare.

Fathima Usman, studentessa musulmana intervistata da DW, ha definito questo divieto discriminatorio. «Se ti tagliassi un dito o uno dei tuoi arti, come ti sentiresti? Io senza il velo mi sento così». Anche un’altra sua collega universitaria si è esposta sull’argomento sostenendo che si sta trasformando l’hijab in un caso internazionale.

La strumentalizzazione di un simbolo religioso

Il caso del velo islamico, infatti, è diventato anche un pretesto politico per poter racimolare voti in vista delle elezioni del prossimo anno. Dunque, non solo una questione di diritti umani, ma anche di affari politici e promesse dei partiti nazionalisti. Muzafar Assadi, analista politico nello stato del Karnataka, è convinto che questa sia tutta una mossa per la campagna elettorale. «Sono potenziali elettori» – ha spiegato a Reuters – «quindi si resuscita un problema, si fa partire una controversia e alla fine si ha una base per le prossime elezioni». 

Ancora una volta a farne le spese sono le donne, alle quali viene detto, anche in questo caso, come dovrebbero vestirsi e comportarsi, strumentalizzando addirittura un simbolo religioso come l’hijab per discutere dell’incolumità e della sicurezza delle donne in un Paese dove le violenze sono all’ordine del giorno. 

Alcuni leader del partito BJP si erano già esposti sulla questione sostenendo anche la necessità di imporre il divieto sull’utilizzo dei jeans e le gonne, poiché secondo la loro opinione le violenze sessuali non accadrebbero se le donne seguissero i principi tradizionali. Ha scatenato parecchie polemiche ultimamente anche la dichiarazione della parlamentare Pragya Thakur riguardo al velo islamico, la quale ha affermato che «Non è necessario indossare l’hijab in pubblico, perché gli uomini hindu non vi faranno sentire in pericolo», e ha continuato osservando come soltanto le donne che non si sentono sicure in casa indossano il velo. 

Tra chi si è schierato contro il divieto dell’hijab vi sono anche coloro che hanno posto l’accento sulla questione “sicurezza”: i musulmani conservatori, infatti, hanno dichiarato quanto sia importante che le ragazze possano indossare il velo proprio per evitare di attirare gli sguardi indesiderati degli uomini.

Non solo l’hijab: le continue violenze subite dalle ragazze musulmane

Questi attacchi contro le ragazze musulmane sono soltanto gli ultimi di una lunga serie che va avanti da moltissimo tempo. Lo scorso gennaio  è scoppiato il caso dell’app che metteva all’asta le donne musulmane, attraverso profili a cui erano allegati foto e dati estrapolati dai profili social delle vittime. Lo scopo dell’app era quello di umiliare le ragazze online dandole in pasto ai leoni da tastiera. L’app è stata rimossa ma le violenze in rete sono diventate quasi routine per molte ragazze musulmane, con poche ripercussioni nei confronti di chi commette tali reati. 

I musulmani compongono il 13 per cento della popolazione totale indiana (su 1.35 miliardi di persone) e continuano a essere, oggi più che mai, un bersaglio facile per le questioni politiche, nonostante rappresentino una buona fetta dei cittadini.

Dunque, questo sembra solo l’inizio di una lunga battaglia che le donne musulmane in India stanno combattendo in prima linea, in attesa della decisione della Corte Suprema di questa settimana. Anche Malala si è pronunciata sull’argomento, scrivendo che l’oggettificazione delle donne persiste, indipendentemente da ciò che indossano: «Ora i leader indiani devono fermare la marginalizzazione delle donne musulmane».


Immagine in copertina di Adam Jones

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