Cura dell’Alzheimer, i farmaci non sono tutto

Ancora oggi non esiste una cura farmacologica specifica per “la malattia del ricordo”, e anche se si riescono ad alleviare i sintomi e ritardare l’avanzamento dell’Alzheimer, serve molta più attenzione per i pazienti.


La malattia di Alzheimer, secondo i dati riportati dal DSM-5, è attribuibile a più del 50 per cento delle diagnosi di demenza. Lo studio della patologia deriva dall’aumento dell’età media in quanto l’insorgenza, in media, si manifesta tra la settima e la nona decade di vita con sintomi che vanno dalla perdita di memoria (sintomo principale) al disorientamento, dalla psicosi al degradamento cognitivo. I fattori di rischio di questa patologia sono principalmente legati all’età e alla predisposizione genetica. Data l’età dei pazienti affetti, la patologia va spesso in comorbilità con altre patologie di tipo cerebrovascolare o metaboliche, che complicano il quadro clinico generale ed il carico di assistenza. La vita media dei pazienti, dal momento della diagnosi, si aggira intorno ai dieci anni, ma esistono casi in cui i pazienti sono sopravvissuti fino a 20 anni con la patologia.

La patologia rientra nei disturbi neurodegenerativi, ossia quelle malattie legate all’aumento dell’età demografica, venutasi a instaurare dagli inizi del XX secolo. Oggi il supporto sanitario per le patologie della tarda età richiede un’ingente somma di denaro e di investimenti in quanto l’assistenza richiesta da questi utenti è molto elevata perché col progredire della patologia si riducono le funzioni cognitive e quindi la possibilità di badare a se stessi.

Un ricerca del 2016 portata avanti dal CENSIS in collaborazione con AIMA (Associazione Italiana Malati Alzheimer) stima che la spesa totale pro capite per singolo paziente è di 70.587 euro, di cui solo il 5 per cento delle spese dirette è a carico dello Stato. Il carico maggiore è infatti sulle spalle dei caregivers (letteralmente “chi si prende cura”), che oltre alle spese economiche, investono anche gran parte del loro tempo, circa 4,4 ore al giorno che li costringe ad una radicale rivoluzione nel mondo lavorativo.

Una cura possibile?

Ancora oggi non esiste una cura farmacologica specifica, ma vengono utilizzati dei farmaci con lo scopo di alleviare i sintomi e ritardare quanto più possibile la fase severa della malattia. Tra questi troviamo gli inibitori dell’acetilcolinesterasi, la memantina per i casi più gravi, gli antipsicotici per ridurre i sintomi comportamentali come l’agitazione, le allucinazioni e i pensieri paranoici.

Nell’ultimo anno la FDA (Food and Drugs administration) ha approvato un farmaco prodotto dalla Biogen e che si spera possa ridurre le complicanze maggiori della patologia. Il farmaco si chiama Aduhelm e agli inizi del 2019 ha subito l’interruzione della sperimentazione dato che i risultati attesi non erano stati soddisfatti.

A ottobre 2019 però, una seconda rilettura dei dati, ha mostrato dei consistenti miglioramenti nel 22 per cento dei casi e ciò ha spinto la FDA, per la prima volta, ad approvare un farmaco sperimentale per la cura alla malattia di Alzheimer. La comunità scientifica però ha dei pareri discordanti a riguardo, in quanto il farmaco presenta notevoli effetti collaterali: infatti circa il 35 per cento dei pazienti trattati è andata incontro a complicanze cerebrovascolari.

Il farmaco non è tutto

Il sostegno farmacologico, fine a se stesso, risulta inutile e palliativo se non affiancato a un sostegno di tipo assistenziale attraverso terapie di potenziamento cognitivo e una corretta strutturazione dell’ambiente di vita. In quest’ultimo caso diventano di fondamentale importanza le strutture messe a disposizione dal pubblico e dal privato, nello specifico possiamo indicare le CDCD (centri per i disturbi cognitivi e le demenze) specializzati in diagnosi e trattamento delle demenze, le RSA (Residenze sanitarie assistenziali) per un’assistenza 24 ore su 24 e, infine, i centri diurni integrati. 

Ogni singola struttura è idonea in base al tipo di gravità e di decorso della patologia, ma tutte devono essere strutturate in modo da risultare confortevoli e piacevoli per gli utenti. Partendo dall’arredo, ad esempio, è il caso di utilizzarne uno essenziale con molti riferimenti all’ambiente domestico, cercare di evitare corridoi lunghi e ricchi di porte, valorizzare gli spazi esterni con una struttura ben specifica, come i tipici giardini Alzheimer. Questi devono prediligere percorsi semplici, senza incroci, con tracciati agevoli e ripetitivi, ricchi di flora colorata e stimolante a livello sensoriale. L’obiettivo è quello di creare ambienti sicuri dove poter stimolare l’autonomia dell’utente.

Nonostante la continua ricerca e le ingenti somme di denaro investite in questi anni, è ancora impossibile trovare una cura per l’Alzheimer; quello che però si può fare è costituire un intervento nei confronti dei caregivers, supportarli per quanto riguarda le spese economiche e la delega delle cure presso strutture adeguate e competenti. 

Alzheimer, una malattia di cui “prenderci cura”

Ancora oggi la cura extradomiciliare è stigmatizzata, vista come una reclusione che il paziente non si merita, come una sorte di scarica barile. Bisogna pensare però alla salute del singolo individuo, alla propria qualità di vita e a quella familiare. Il sostegno familiare è spesso lasciato alla sensibilità dei singoli ambulatori in grado di creare percorsi di sostegno e alle associazioni di auto-mutuo e all’aiuto dei familiari. Questo però non basta. 

In alcuni contesti sociali la presa in carico dell’utente da parte dei caregivers diventa una eliminazione dei propri bisogni, che non fa bene ai parenti e non fa bene agli utenti. Sarebbe il caso di creare campagne di sensibilizzazione nazionale per la tutela della salute geriatrica e del sostegno alle famiglie, lasciare passare il messaggio che con l’aumentare dell’età è molto probabile che inizino a esserci dei decadimenti cognitivi e che questo non sia colpa di nessuno: è la natura. 

Possiamo però aiutarci a godere meglio gli anni che restano, senza provocare sofferenze a nessuno. È dantesco il rapporto tra questa patologia, molto diffusa ormai in età geriatrica, e la costante ricerca di sempre più grandi bagagli di immagazzinamento dati.

Francesco Lo Secco