Il green pass e il principio di non discriminazione

La possibilità di introdurre misure volte a estendere l’applicazione del green pass ha suscitato un ampio dibattito nel corso dell’ultima settimana.


La questione dell’estensione del green pass è stata sollevata a partire da un dato arrivato dalla Francia: alla stretta di Macron dello scorso 12 luglio sull’imposizione del green pass per svariate attività di vita quotidiana, ha fatto seguito un boom delle richieste di vaccino, con 926 mila francesi che hanno effettuato la prenotazione quella stessa sera.

Questo dato invita a riflettere sulle politiche che gli Stati possono assumere per incentivare le vaccinazioni, anche in vista dell’obiettivo dichiarato dalla Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che lo scorso 13 luglio, su Twitter, ha scritto: «Più della metà di tutti gli adulti nell’UE sono ora completamente vaccinati! […] sono state consegnate dosi sufficienti per vaccinare il 70% degli adulti nell’UE». 

L’estensione dell’applicazione del green pass, a fronte dei dati rilevati, mira a un duplice scopo: se, sotto un primo profilo, essa assume la funzione di strumento di rilancio delle campagne vaccinali, sotto altra prospettiva essa costituisce un compromesso per consentire la graduale ripresa delle attività ordinarie di vita, anche a beneficio di coloro che, completato il ciclo vaccinale, vorrebbero tornare a godere pienamente delle proprie libertà. 

Il quesito su cui ci si interroga afferisce ai possibili profili discriminatori delle misure volte a estendere il green pass, più specificatamente nei confronti di due categorie di soggetti: coloro che, per ragioni di salute o di indisponibilità delle dosi, non possono ricevere la somministrazione di vaccino, e coloro che, invece, nel pieno esercizio della propria autodeterminazione, scelgono di non vaccinarsi per questioni ideologiche o religiose.

Sul palcoscenico internazionale la questione è stata discussa già in passato, quando, nel dibattito circa le possibili misure da introdurre per una progressiva riapertura in sicurezza dei confini europei, si effettuava una comparazione tra la possibilità di imporre un certificato vaccinale e quella di progettare un documento più ampio, che contemplasse categorie ulteriori rispetto a quella dei soli vaccinati, alla luce dei principi di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità delle misure da adottare.

In questa sede è stato sostenuto che il certificato vaccinale presentasse profili discriminatori, di fatto escludendo dal godimento di determinate libertà i soggetti non vaccinati, e si è preferito istituire il green pass, nell’ambito del quale trovano riconoscimento non solo coloro che hanno completato il ciclo vaccinale, ma anche i soggetti che hanno sviluppato gli anticorpi da Covid-19 e, in ultimo, coloro che hanno effettuato un tampone con esito negativo nelle precedenti 48 ore. 

La scelta del green pass, dunque, è il frutto di un compromesso che ha lo scopo di tutelare situazioni soggettive eterogenee, tutte meritevoli di essere adeguatamente rilevate. Si pensi, ad esempio, alla diversa posizione di coloro che si sono completamente immunizzati in seguito allo sviluppo degli anticorpi da Covid-19 per precedente patologia, nei confronti dei quali sarebbe del tutto inesigibile richiedere la somministrazione di un vaccino, e che pur sarebbero incorsi in limitazioni, ove si fosse subordinata la libertà di movimento nell’UE al solo certificato vaccinale. 

La circostanza per cui, invece, nel green pass sia riconosciuta anche la categoria dei soggetti che hanno effettuato, nelle precedenti 48 ore, un tampone con esito negativo, ha consentito di prevenire possibili discriminazioni sia in capo a coloro che – per ragioni di salute o per indisponibilità delle dosi – non hanno potuto ricevere il vaccino, sia nei confronti di chi, per motivi ideologici o religiosi, a fronte di una mancata politica di imposizione statale, ha scelto di non vaccinarsi. 

green pass

Oggi la questione è tornata al centro del dibattito in quanto ci si chiede, alla luce di questo quadro, se estendere la portata applicativa del green pass non solo alla libertà di movimento tra gli Stati dell’UE, ma anche all’espletamento delle attività di vita quotidiana, possa presentare quei già citati profili discriminatori che si rinvenivano nei certificati vaccinali, posto che i soggetti privi di immunizzazione, di fatto, sarebbero posti nelle condizioni di dover effettuare un tampone sostanzialmente ogni 48 ore. 

In Italia, il dibattito si è principalmente incentrato sulla possibilità di estendere il green pass per l’accesso alle discoteche e ai ristoranti al chiuso. Si tratterebbe, quindi, di una misura con portata limitata e che, a differenza di quanto già in atto in altri Stati membri, non sembra estendersi alle attività essenziali di vita quotidiana, in tal senso non ponendo particolari problemi al vaglio del principio di non discriminazione. 

Sul punto, si sono espressi anche due noti costituzionalisti italiani, Giovanni Maria Flick e Sabino Cassese, già giudici costituzionali, i quali si sono posti a favore della legittimità delle misure ampliative del green pass, in ragione della sussistenza di un interesse collettivo alla salute, che giustificherebbe la compressione delle libertà individuali. 

Il professor Flick ha evidenziato come, alla base delle scelte del legislatore, debbano esservi quei principi guida che sono contenuti nella Costituzione, primo fra tutti l’art. 32, che individua il bene della salute pubblica non soltanto come diritto fondamentale della persona, ma anche, in chiave solidaristica, quale interesse della collettività e adempimento di quei doveri inderogabili di cui all’art. 2 del medesimo testo. 

Non vi sarebbero, pertanto, profili discriminatori in relazione a quelle misure che impongono restrizioni nei confronti di coloro che scelgono di non vaccinarsi, prediligendo un interesse maggiormente individualistico a scapito di quello collettivo: tale scelta consapevole giustificherebbe la ragionevole applicazione di adeguate misure restrittive e la conseguente compressione di determinati diritti. 

Nessuna libera determinazione, invece, sussisterebbe in capo a coloro che non possono effettuare il vaccino per ragioni di salute o per indisponibilità delle dosi. Questi soggetti, infatti, sarebbero costretti ad assistere in maniera del tutto passiva a una compressione delle proprie libertà fondamentali, senza possibilità di scelta alcuna. Estendere il green pass a discoteche o ristoranti al chiuso, ossia ad attività sporadiche e non essenziali, appare certamente una misura ragionevole e proporzionata, sia con riferimento a coloro che scelgono di non vaccinarsi, sia con riguardo ai soggetti che non possono ricevere la suddetta somministrazione. 

Più complesso è il caso in cui l’obbligo del green pass si estenda alle attività della normale vita quotidiana, in relazione alle quali, forse, sarebbe opportuno chiedersi fino a dove giunga il confine delle politiche di incentivazione dei vaccini, oltrepassato il quale si potrebbe incorrere nell’imposizione, per fatti concludenti, dell’obbligo vaccinale, in assenza di un’apposita legge che provveda espressamente in tal senso. 

I soggetti non vaccinati o che non hanno sviluppato gli anticorpi, infatti, si troverebbero ad essere esclusi dall’accesso ai servizi essenziali, salvo la facoltà di effettuare un tampone ogni 48 ore – spesso a loro spese – di fatto trasformando la scelta del vaccino in una strada quasi obbligata. Si tratterebbe di scelte politiche legittime, che trovano supporto anche nei rilievi scientifici, ma che come tali vanno inquadrate. 

Anche se il governo Draghi non sembra essere orientato in tal senso, in Italia, con una legge o un atto avente forza di legge, sarebbe possibile introdurre l’obbligo del vaccino, come già fatto nel 2017 in relazione a dieci specifiche vaccinazioni per i minori di sedici anni. Lo stesso articolo 32 della Costituzione, nel sancire che «nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge», ammette in via residuale la presenza di trattamenti obbligatori, tra i quali potrebbe rientrare anche il vaccino. 

Se l’introduzione dell’obbligo vaccinale sanerebbe in radice le possibili discriminazioni derivanti dall’estensione del green pass in capo a coloro che, sino ad ora, non si sono vaccinati per una libera scelta personale, esso non risolverebbe comunque le discriminazioni che potrebbero subire quei soggetti che, per ragioni di salute o di indisponibilità delle dosi, non hanno potuto sottoporsi alla somministrazione del vaccino. 

Per questi ultimi, infatti, sembra ragionevole guardare al futuro: il green pass sarà legittimo solo se limitato al periodo in cui sussiste il pericolo di contagi e destinato a cessare i suoi effetti al raggiungimento dell’immunità di gregge. Maggiore sarà lo sforzo di vaccinarsi, più breve sarà il periodo in cui questa categoria di soggetti potrebbe essere esposta a discriminazioni. 

Nell’Unione Europea il quadro è eterogeneo: la Francia, come già accennato, ha annunciato delle politiche più restrittive e l’Italia discute della possibilità di seguire, in maniera più temperata, le orme francesi; in Germania, la cancelliera Angela Merkel ha ribadito che la posizione dello Stato non è quella di imporre un obbligo vaccinale, sottolineando la necessità di guardare sempre al contesto globale. Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro, Danimarca, Lettonia, Lituania e Austria hanno introdotto da tempo misure restrittive che subordinano l’accesso a diverse attività all’esibizione del certificato vaccinale o del tampone negativo. 

Vi sono, in ultimo, delle ipotesi speculari: quella dell’Irlanda dove, per l’accesso a ristoranti e hotel, non è ritenuto sufficiente il tampone con esito negativo, ma occorre necessariamente un certificato vaccinale o un documento che attesti un recupero con immunizzazione da Covid-19; e quella di Ungheria e Regno Unito che, invece, hanno adottato una politica di forte ridimensionamento di tutte le restrizioni. 

Ancora una volta, a fronte di uno strumento unitario creato sul piano sovranazionale, gli Stati membri hanno dimostrato un indiscusso talento nel ridefinirne i confini e plasmarlo in relazione agli interessi nazionali, pervenendo così a un quadro disomogeneo. Se è vero, come è stato dichiarato dalla Commissione europea, che la gestione delle politiche vaccinali è di competenza degli Stati, è altresì vero che l’applicazione del principio di non discriminazione nell’UE e l’obiettivo dell’uniforme applicazione del diritto comunitario sono invece materie oggetto dell’operato della Corte di Giustizia e non si esclude che, in futuro, essa possa essere chiamata a pronunciarsi al riguardo.


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