Il caso Sarah Everard, quale futuro per la sicurezza delle donne?
L’omicidio di Sarah Everard è diventato il caso che dimostra l’inadeguatezza dell’approccio securitario a cui molti governi ricorrono nel contrasto alla violenza di genere.
È la sera del 3 marzo quando si perdono le tracce di una giovane donna inglese, Sarah Everard, mentre si accinge a raggiungere la sua abitazione dopo una visita a casa di amici. Di lei resta solo una telefonata al fidanzato durante il tragitto e la registrazione di una telecamera di passaggio, poi il silenzio. I suoi resti verranno ritrovati una settimana dopo nei pressi di un bosco della città di Ashford, nel Kent. Un omicidio intessuto di una fitta rete di mistero, la cui unica certezza riguarda il colpevole: un agente della Scotland Yard, peraltro già segnalato per atti osceni in luogo pubblico.
La vicenda, dai molteplici connotati ancora oscuri, ha immediatamente provocato una forte ondata di sgomento tra la popolazione innescando una serie di forti proteste, la cui dura repressione ha suscitato non poche critiche nei confronti dell’operato della polizia inglese.
Il profondo turbamento ha attraversato i confini britannici per raggiungere varie parti d’Europa, innescando un intenso dibattito su temi quali la risposta alla violenza di genere, la limitazione delle libertà e il controllo del corpo delle donne così come il funzionamento delle istituzioni deputate alla vigilanza e prevenzione dei reati.
La colpevolizzazione della vittima
L’omicidio di Sarah Everard si è immediatamente trasformato in un caso universale perché riguarda e rappresenta la condizione a cui tutte le donne in ogni parte del mondo soggiacciono quotidianamente. Nel patrimonio genetico di ogni donna di qualsiasi età sono ormai presenti dei meccanismi automatici di difesa che consistono nell’adozione di comportamenti standardizzati da adottare nei luoghi pubblici e soprattutto durante la notte.
Quella sera, Sarah Everard ha messo in pratica ogni possibile precauzione, di norma consigliata alle donne che circolano la sera, per arrivare a casa sana e salva evitando di cadere vittima di violenza: la chiamata al fidanzato lunga 15 minuti e un percorso più illuminato e meno isolato, anche se più lungo.
Nel caso di Sarah Everard, questi accorgimenti non sono bastati nè a salvarle la vita né a evitare il solito processo di colpevolizzazione della vittima. Sono bastate poche ore perché sui social iniziassero a circolare le solite domande: “Cosa ci faceva una ragazza da sola alle 21.30?” o “Perché non ha preso un taxi invece di camminare per strada da sola?”.
Ecco che la storia si ripete ancora. Ogniqualvolta una donna subisce uno stupro o è vittima di molestie non si cerca mai di intavolare una discussione su come rendere la legge più efficace nella prevenzione e nel contrasto alla violenza di genere, né tanto meno si cerca di empatizzare con il dolore delle vittime, piuttosto si va alla ricerca di elementi che possano essere utili per addossare loro la responsabilità di quanto accaduto.
“Indossava indumenti troppo succinti o troppo corti”, “Assumeva atteggiamenti provocatori”, “Aveva conversato con il suo aguzzino o ne aveva accettato un passaggio a casa”, “Si trovava in un luogo buio e isolato, doveva aspettarselo”: tutti elementi sufficienti a considerare giustificabile uno stupro nell’immaginario collettivo.
Considerazioni simili sono condivise anche a livello istituzionale come dimostra il fatto che, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Sarah, la polizia abbia avvertito tutte le donne del quartiere di restare a casa e di stare attente alla loro sicurezza.
Tuttavia, avvertimenti simili finiscono per essere particolarmente pericolosi perché, come precisato dalla femminista Julie Bindel, tendono a perpetuare mitologie dannose: quelle secondo cui le donne sono in qualche modo complici del loro carnefice se escono da sole la notte.
Alla luce di tali osservazioni, è spontaneo chiedersi: chi stabilisce come e se una donna può esercitare le proprie libertà o il controllo sul proprio corpo? Perché ci si aspetta che siano le donne a modificare il loro comportamento per sfuggire a una violenza quando gli unici responsabili sono gli uomini? Può un avvertimento a restare in casa essere la soluzione al problema della sicurezza delle donne?
E se la soluzione passasse per gli uomini?
A queste domande è senza dubbio riconducibile la proposta provocatoria avanzata da una deputata britannica, Jenny Jones, di istituire un coprifuoco per gli uomini a partire dalle 6 del pomeriggio. La reazione degli uomini non si è fatta attendere. Questi ultimi, infatti, hanno immediatamente e animatamente manifestato tutto il loro dissenso mostrandosi offesi da siffatta proposta. Ma gli uomini che si sono sentiti offesi sono gli stessi che non mostrano alcuna reazione di fronte a quel controllo formale e informale dei corpi delle donne che negli anni si è sempre più consolidato.
La giornalista Ali Pantony si è chiesta: «perché continuiamo a parlare di cosa possono fare le donne per stare al sicuro invece di parlare di cosa possono fare gli uomini per smettere di minacciare la loro sicurezza? Perché alle donne viene insegnato a difendersi sin dall’infanzia mentre agli uomini non viene insegnato il rispetto delle donne o come non essere violenti o minacciosi?»
Finché lo stupro e la violenza di genere continueranno a essere concepiti esclusivamente come un “problema femminile” anziché porre l’attenzione sugli uomini e il loro comportamento, il problema resterà insoluto.
La soluzione non può che passare solo attraverso lo smantellamento di quel sistema patriarcale che, come sostiene il ricercatore Jackson Katz, «crea le condizioni perché la violenza verso le donne si manifesti quotidianamente nelle forme più diverse, senza che la responsabilità per la sua risoluzione sia data in carico ai suoi perpetratori, gli uomini». Poiché tale smantellamento richiederebbe tempo e interventi strutturali, prosegue il ricercatore, la risposta più facile e immediata delle autorità è di chiedere alle donne di assumersi la responsabilità della loro sicurezza. Così facendo, ci si continua a focalizzare sulla riduzione del rischio e del danno piuttosto che sulla prevenzione che dovrebbe, invece, passare per un lavoro focalizzato sugli uomini.
La sfiducia nelle istituzioni e la cultura dell’impunità
Le proteste intorno al caso Everard hanno messo in luce tutta l’inadeguatezza delle istituzioni adibite alla vigilanza e prevenzione della violenza di genere che ancora una volta si sono rivelati fallimentari nel mantenimento della sicurezza delle donne.
Il paradosso più evidente si riferisce al fatto che l’autore del crimine è stato proprio colui che avrebbe dovuto garantire la sicurezza delle strade nella notte, un poliziotto.
Tale evento, unitamente all’avvertimento della polizia rivolto alle donne di stare a casa, ha contribuito al rafforzamento di quel senso di sfiducia verso le istituzioni già persistente e responsabile, tra l’altro, del bassissimo tasso di denunce delle vittime di violenza.
Secondo un’indagine commissionata dall’UN WOMEN UK, l’80 per cento delle donne di tutte le età ha subito molestie sessuali in luoghi pubblici. L’indagine riporta anche i dati relativi alla sfiducia nel sistema:il 96 per cento delle intervistate, infatti, riferisce di non aver denunciato l’abuso mentre il 45 per cento crede che la denuncia non avrebbe fatto alcuna differenza. A questi, vanno aggiunte le oltre 700 segnalazioni di abusi domestici contro agenti di polizia, registrate tra il 2015 e il 2018, come riportato da Sisters Uncut.
Sisters Uncut sta manifestando contro il disegno di legge (Police Crime, sentencing and courts bill) in discussione in parlamento che intende contrastare la violenza di genere attraverso un inasprimento dei poteri di polizia e la limitazione della libertà di protesta. L’associazione, con il lancio dell’hashtag #KILLTHEBILL e unitamente ad altre associazioni femministe, protesta contro le misure contenute nel disegno di legge e chiede «interventi strutturali per sostenere le donne che hanno subito abusi e per affrontare la violenza maschile al di là delle logiche emergenziali e securitarie: investimenti nelle case rifugio, un salario di sussistenza, un migliore accesso alla contraccezione e all’aborto, una migliore assistenza sanitaria e sociale, un sistema che supporti le donne per ottenere la giustizia di cui hanno bisogno e che meritano, e un’adeguata educazione sessuale e affettiva nelle scuole».
Il caso di Sarah Everard ha rivelato quanto l’approccio emergenziale, securitario e giustizialista seguito dalle istituzioni sia inadeguato se non correttamente accompagnato da un cambiamento culturale. Occorre sovvertire quella cultura patriarcale imperniata sulla retorica generale del “Proteggete le vostre figlie” sostituendola finalmente con “Educate i vostri figli” e, più in generale, educhiamo le nostre società. Nella valorizzazione della diversità, dell’inclusività così come nel rispetto delle libertà personali e della sicurezza delle donna, occorre che la cultura riprenda un ruolo centrale. É giunto il momento di liberarci della cultura machista, maschilista e patriarcale finora dominante.