Italiani brava gente (ma anche un po’ ignoranti)

Anni di elogi autoreferenziali al genio degli italiani hanno distolto l’attenzione dai reali problemi sistemici dell’educazione italiana.


Durante la prima ondata primaverile di Covid-19, quando ancora il mondo stava cercando di capire come fronteggiare una minaccia pandemica che fino a qualche settimana prima sembrava confinata alla Cina, con i suoi esotici quanto malsani wet markets, o al continente africano, con le sue periodiche epidemie di ebola, i governanti italiani e delle varie nazioni europee cercavano di illustrare i piani di azione a popolazioni spaventate e disorientate.

A tal riguardo, in Italia non ci si è contraddistinti per chiarezza comunicativa, a tutti i livelli di amministrazione, sia essa locale o nazionale: si pensi alla fuga di notizie relativa all’uscita del primo DPCM, risalente agli inizi di marzo, che ha portato centinaia di fuori sede ad accalcarsi in tarda serata in stazione centrale a Milano, o all’improbabile e tragicomica non-spiegazione del significato dell’indice Rt, da parte dell’assessore al welfare lombardo Gallera. Quest’ultimo episodio è stato oggetto di un impietoso confronto video, rimbalzato sulle maggiori testate italiane, con un analogo discorso effettuato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel.

Tralasciando ora la caratura politica dell’uno e dell’altro personaggio – da una parte un assessore al welfare, seppur di una delle regioni italiane più ricche e all’avanguardia, e dall’altra il personaggio politico che da 15 anni guida la quarta economia al mondo, nonché una delle figure più carismatiche d’Europa – e al netto dei background professionali, uno un avvocato, l’altra un dottore in chimica fisica, sorge spontanea una domanda: perché, trascurando la reale consapevolezza numerica sull’indice Rt da parte dei due politici, uno si permette di dare una spiegazione ridicola e totalmente sbagliata, mentre l’altra, acquistando una verve da insegnante di matematica di una qualsiasi scuola primaria, spiega un concetto, che si fa fatica ancora oggi a capire, con una semplicità disarmante?

Volendo dar ragione all’adagio che vede per ciascun popolo il politico che si merita, vorrà dire che il problema è da ricercarsi, volendo estendere il problema su scala nazionale, nel popolo italiano.

Se in Ue la percentuale di giovani laureati, di età compresa tra i 30 e i 34 anni, si attesta al 40 per cento, l’Italia, secondo dati eurostat, con il 27,8 per cento risulta essere fanalino di coda, superata solo dalla Romania con 24,6 per cento. Le percentuali sono sovrapponibili per uomini e donne. Fedeli a questa cultura della non cultura, noi italiani sfioriamo però il podio per abbandono scolastico di giovani compresi tra i 18 e i 24 anni, con il 14,5 per cento, contro il 10,6 per cento della media europea. Il divario di genere si acuisce tra chi ha una laurea in aree disciplinari scientifiche e tecnologiche, ovvero le cosiddette lauree STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics).

Tra i laureati, il 37,3 per cento degli uomini ha una laurea STEM, contro il 16,2 per cento delle donne: le quote appaiono invertite per le lauree umanistiche (30,1 per cento e 15,6 per cento), mentre si hanno proporzioni simili per le lauree in area medico-sanitaria, socio-economica e giuridica, con una leggera prevalenza delle laureate. Le laureate italiane in discipline STEM, come magra consolazione, superano in percentuale le colleghe europee: in generale in Italia i numeri sono in linea con la media dei Paesi Ue (25,4 per cento), pur restando di poco inferiore ai numeri francesi (26,8 per cento) e spagnoli (27,5 per cento), e molto lontani dai numeri degli Stati nord europei (ad esempio la quota tedesca è del 32,2 per cento).

I numeri sulla scolarizzazione dei giovani italiani risultano però un miracolo se rapportati agli investimenti nell’istruzione: dal 2009 al 2017 si è effettuato un costante taglio alle risorse destinate al settore educativo (da 4,6 per cento del PIL al 3,8 per cento), che pone l’Italia quartultima per investimenti nell’istruzione in rapporto al PIL in Europa.

Questa tendenza non sembra cambiare, anzi, con un abile gioco delle tre carte, si sono previsti tagli per un totale di 4 miliardi nei prossimi due anni, aggiungendone appena 113 milioni il dicembre scorso. La situazione già critica, è aggravata dalla pandemia, con un allontanamento forzato di giovani e adolescenti dai banchi di scuola e università: in questo caso la situazione in Italia, pur essendo critica, è mitigata dalla didattica a distanza.

L’istruzione non è del resto, un settore politicamente conveniente: richiede una visione e un investimento a lungo termine, entrambi elementi che sembrano essere stati dimenticati dalle classi politiche italiane da ormai diversi anni. Puntare sull’istruzione dà i suoi frutti nel giro di almeno una generazione e non permette di capitalizzare gli investimenti neanche in termini di elettorato, dal momento che è un investimento sulle generazioni di futuri adulti, quindi individui tendenzialmente giovani o giovanissimi, che spesso non hanno ancora il diritto di voto.

L’aver trascurato il sistema educativo italiano per anni, ha portato delle conseguenze: secondo il linguista Tullio De Mauro, in un’intervista del 2016, una consistente porzione della popolazione italiana ha gravi difficoltà nella comprensione e l’analisi di un testo scritto. Questa elementare capacità di analisi, impedisce di affrontare la complessità del reale, rapportandosi al mondo e a eventi complessi – si pensi a dinamiche politiche nazionali e internazionali – paragonandoli esclusivamente alle proprie esperienze dirette.

Viene a mancare, quindi, una componente chiave del pensiero critico, ovvero l’attitudine a raccogliere, verificare e fornire dati e fatti minuziosamente. Lo studioso sottolinea come «abbiamo bisogno di un buon livello di istruzione per poter trovare le fonti buone per informarci e per utilizzare bene queste informazioni, per utilizzarle criticamente. Questo sarebbe indispensabile per tutti, per un buon esercizio del voto».

Quando per leggere la complessità del reale ci si ritrova con armi spuntate e ammaccate, è inevitabile effettuare, nella migliore delle ipotesi, una lettura distorta, e nella peggiore, una lettura completamente sbagliata della realtà che ci circonda. Per cui diventa perfettamente ragionevole che la terra sia piatta e che ci sia un complotto per farla credere sferica (o geoide), o che “loro” ci irrorino quotidianamente con dei composti chimici sparati in alta quota da aerei militari pensati per il ruolo, o che i leader della sinistra americana siano dei satanisti dediti alla pedofilia.

D’altro canto perché cercare di risolvere un simile problema? È politicamente più conveniente sfruttare questa povertà di mezzi critici: basta assecondare i cortocircuiti logico-narrativi in cui si sono incappati interi settori di elettorato e cercare di intercettarne i bisogni immediati, capitalizzando il dissenso e il malessere, sotto forma di voti. Poco importa se si hanno programmi e argomentazioni politiche inconsistenti, o addirittura autolesioniste: l’unica cosa che importa davvero è il consenso.

Non una visione a lungo termine, al fine di rinnovare completamente la società italiana, dandole un futuro puntando sui giovani come volano: d’altro canto in un Paese con un’età media di 45,7 anni, l’elettorato giovane non fa gola a nessuno.

Si preferisce una strada evidentemente più diretta, veloce e comoda: slogan ripetibili e fruibili immediatamente da chiunque, puntando alla pancia, non alla testa, che dietro un linguaggio aggressivo, ma conciliante con il “popolo”, nascondono interessi poco chiari, di gruppi ristretti, di certo ben lontani dalle masse. Ed eccoci incastrati in quello che sembra essere un ciclo infinito che si autoalimenta: amministratori incompetenti o in cattiva fede, che sfruttano la povertà di mezzi critici del proprio elettorato, che dal canto suo appoggia questa macchina politica.

Spezzare il circolo non è però un’operazione semplice e nasconde delle insidie da non sottovalutare: non si può combattere l’irrazionalità di un pensiero acritico esclusivamente con la razionalità dell’educazione scolastica, con lo spirito critico ottenuto con la ricerca e lo studio: si finirebbe per incappare in una sorta di profezia che si autoavvera, del classico “noi” contro “loro”, “popolo” contro “élite”, bandiera dei movimenti populisti. Per non parlare del fatto che si correrebbe il rischio di bollare come ridicolo, fantasioso e paranoico tutto il dissenso, in cui tutto ciò che va contro la propria versione ragionevole è sbagliato a prescindere.

Questa dinamica rappresenta un enorme stress test per le grandi democrazie occidentali. Lo stiamo tutti osservando con la retorica imperante durante questo periodo pandemico: da una parte l’establishment rappresentato dal governo che spinge per operazioni, anche restrittive, mirate alla salvaguardia della salute e la sanità pubblica, associato idealmente alle grandi corporazioni farmaceutiche in corsa per trovare un vaccino funzionante, dall’altra le opposizioni in lotta contro la costituzione di una dittatura sanitaria, in cui la pandemia è solo una facile scusa per chiuderci in casa, renderci controllabili e poveri.

Cosa succederebbe se ci fossero realmente delle operazioni sistematiche, che avessero lo scopo di far confluire l’elettorato spaventato su una forza politica ben precisa? Si pensi ad esempio a una stagione di attentati dinamitardi a opera di sedicenti gruppi terroristici di destra e/o sinistra, lungo tutto lo stivale, che traumatizzando l’opinione pubblica, spingano il consenso bipartisan verso un unico polo centrale. Suona familiare?

Il modo più immediato per riuscire a erodere consenso alle forze populiste non è combattere a colpi di debunking – o per lo meno, non solo – le argomentazioni di chi crede che sia in atto un “golpe sanitario” oppure che i democratici americani siano satanisti-pederasti, ma cercare di capire il perché di questo malcontento, intercettando i bisogni di intere fasce della popolazione che non si vedono più rappresentate. Il modo più lento, ma decisamente il più efficace, è quello di riaffilare con l’istruzione le armi che permettono di delineare la complessità della realtà: ma per quello bisogna rimboccarsi le maniche e ritornare a investire sul nostro futuro.


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