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L’Isola delle Rose: incredibile storia di un sogno breve ma intenso

Sydney Sibilia ci racconta la storia vera dell’Isola delle Rose, progetto utopistico dell’ingegnere italiano Giorgio Rosa, da mercoledì scorso disponibile su Netflix.


«Perché non ci riesci Giorgio? Perché non ci provi almeno?»; «A fare cosa?»; «A essere normale». Sono queste le parole di un padre seriamente preoccupato per il futuro del proprio figlio, un padre che si rende conto che non c’è spazio per una mente eccentrica come quella del suo Giorgio. Il problema, però, è che Giorgio Rosa (interpretato magistralmente da Elio Germano) non ha la minima intenzione di essere normale, anzi, combatterà con tutte le sue forze per realizzare qualcosa davvero fuori dal comune.

Ingegnere bolognese sognatore e idealista, alla fine degli anni ‘60 costruisce (letteralmente) un’isola, una piattaforma di 400 metri quadrati, creando a tutti gli effetti uno Stato, o meglio una micronazione, che passerà alla storia come Isola delle Rose: «un’isola d’acciaio fuori dalle acque territoriali italiane, dove nessuno ci può rompere i maroni: sei miglia dalla costa» della città di Rimini, una terra di nessuno lontana dalle convenzioni, dalle omologazioni («Cos’è questa cosa di omologare tutto, cosa dobbiamo fare? Dobbiamo mettere la targhetta sul culetto di ogni piccione che vola in piazza Maggiore?»), un’isola felice, espressione della libertà assoluta.

Criticato da sempre dalla sua famiglia e dalla sua ex ragazza Gabriella (Matilde De Angelis), di cui lui continua a essere innamorato, per una volta Giorgio vuole riscattarsi e fare le cose per bene; e se è vero che dove tutti vedono una discoteca, lui vede uno Stato reale, allora l’Isola delle Rose dovrà avere tutto ciò che serve per essere riconosciuto come tale: ha una sua lingua (l’esperanto), una sua moneta, e ovviamente anche un governo con tanto di Presidente, Ministro degli Interni, Ministro dell’Economia, Ministro della Difesa, Ministro degli Esteri.

Inizialmente presa sotto gamba dai vertici politici italiani, che la considerano una innocua “ragazzata” senza importanza, la questione dell’Isola delle Rose inizierà a essere affrontata come un problema serio quando cominceranno a piovere centinaia di richieste di cambio di cittadinanza (addirittura anche dagli Stati Uniti) per acquisire quella della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose; il culmine arriverà nel novembre del 1968 quando Giorgio Rosa si recherà direttamente a Strasburgo presso il Consiglio d’Europa, determinato a ottenere il riconoscimento del suo Stato indipendente e libero. 

Al di là della storia curiosa e affascinante, la vicenda dell’ingegnere Rosa nasconde in sé molto altro. Sydney Sibilia decide di raccontare una storia di affermazione di sé, dei propri ideali, folli e utopistici, messi a tacere da una realtà soffocante e razionale.

«Te vivi in un mondo tutto tuo, ma il mondo non è tutto tuo, ricordatelo bene, perché non l’hai costruito te […]»; «Allora forse dovrei»; «Fare cosa?»; «Costruire un mondo tutto mio». L’ingenuità delle parole di Giorgio è disarmante, così come l’essenzialità dei suoi pensieri; il concetto è oltremodo semplice e anche scontato: se qualcosa non ti sta bene, costruiscine una tu, con le tue mani, con le tue risorse, crea qualcosa che sia adatto a te, e che ti rappresenti.

L’incredibile storia de l’Isola delle Rose, da mercoledì scorso su Netflix, si presenta come un inno all’amicizia, alla lealtà (che a un certo punto sembrerà vacillare, ma che prepotentemente ritornerà), all’amore, a quelle utopie che fanno andare avanti il mondo.

«Voi parlate tanto di libertà, ma la vostra è una libertà condizionata. Quella assoluta vi spaventa. Non è tanto per quello che ho fatto, ma per quello che potrei fare che lei mi odia»; e in effetti il problema ruota proprio attorno a questo: quello creato dall’ingegnere Rosa costituisce un precedente pericoloso, un esempio che potrebbe dar vita a una reazione a catena ben più vasta e difficile da controllare; la paura è talmente grande da scomodare persino l’incrociatore Andrea Doria.

Questa fu una delle ragioni che pose fine a questo esperimento, che per quanto sia stato una breve parentesi nella storia italiana (e per certi aspetti internazionale) ha lasciato il segno. Perché nelle idee dell’ingegnere Rosa può ritrovarsi ognuno di noi: tutti almeno una volta nella nostra vita siamo stati considerati folli, e ci siamo sentiti esattamente come quei sei ragazzi che si tengono per mano, quelle mani piene di sogni e di speranze che vengono sistematicamente smantellate e distrutte dalla realtà. Pietrificati dalla paura, restano immobili e bagnati fradici, con un’unica certezza: quella che, se non si può cambiare il mondo, vale la pena almeno provarci. Magari insieme, e con una bottiglia di Cynar.


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Silvia Scalisi

Laureata in Giurisprudenza, alla passione per il diritto associo quella per la letteratura, il cinema e la musica.

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