Il costo della bellezza? Vite umane

I canoni di bellezza femminile hanno reso il mondo del beauty e dei cosmetici una vera e propria industria bellica a carico di donne, schiave delle piantagioni di palme da olio.


Ci sono i brand di cosmesi, con i loro slogan per le donne, i diritti, e l’emancipazione femminile. E poi, ci sono storie come quelle delle schiave nelle piantagioni di palme da olio nel sud-est asiatico, donne sacrificate sull’altare del settore miliardario della bellezza, a far pensare che “No, non tutte «Noi Valiamo»!”.

L’Oréal, Unilever, Procter & Gamble, Avon, Estee Lauder, Johnson & Johnson: si scaglia contro tutti il “J’accuse di Associated Press che mette a fuoco il «brutale trattamento delle donne nella produzione dell’olio di palma, compresa la piaga nascosta dell’abuso sessuale», nell’ambito di un’indagine più vasta che denuncia le tante violazioni di diritti umani che giornalmente si consumano nella giungla indo-malese, dal traffico di esseri umani al lavoro minorile.

«Le donne sono gravate da alcuni dei lavori più difficili e pericolosi del settore, passano ore immerse fino ai fianchi in acque contaminate dai reflui chimici, e trasportano carichi così pesanti che molte subiscono il prolasso dell’utero». Assunte a giornata, per anni; nessuna garanzia, né diritto. «Spesso lavorano gratuitamente per aiutare i mariti a soddisfare quote giornaliere altrimenti impossibili». Non è insolito che siano costrette a vendersi ai supervisori per mantenere il lavoro, ottenere mansioni meno penose, o ripagare i debiti che le famiglie contraggono per sopravvivere nei palmeti. Si ammalano. Le stuprano.

Per l’agenzia di stampa americana, quasi tutti i grandi nomi occidentali, tramite le catene di approvvigionamento delle loro società madri, sono associabili all’oro dell’Asia Sud-orientale. Interpellate, molte compagnie hanno tentato di difendersi appellandosi alle quantità irrisorie utilizzate, rimandando alle dichiarazioni di impegno per la sostenibilità e i diritti umani, garantendo sforzi per elencare gli stabilimenti nella filiera di lavorazione in nome della trasparenza. Alcune si sono dette sconcertate da quanto emerso. Altre, semplicemente, sono rimaste in silenzio. Sanno, e tacciono. Nel nome di un business da 530 miliardi di dollari, fatto di mascara, bagnischiuma profumati e creme antirughe. Bellezza al prezzo di una vita.

Quasi 8 milioni, secondo il ministero per l’emancipazione femminile e la protezione dei bambini, sono le donne che lavorano nei campi nella sola Indonesia, il più grande produttore mondiale di olio di palma, i cui derivati sono contenuti in 3 su 4 dei prodotti per la bellezza e la cura personale che utilizziamo ogni giorno ignorandone l’immenso costo umano. Il numero di lavoratrici della filiera in Malesia è invece impossibile da determinare: troppe sono le straniere non tracciabili impiegate nel ramo, le più vulnerabili perché non esistono.

C’è Ita, che ha due figli da sfamare e non può rifiutarsi di trasportare sulla schiena cisterne cariche di sostanze tossiche e spargere quasi mezza tonnellata di fertilizzante al giorno tra i campi dell’Indonesia. Ha dovuto nascondere due gravidanze per timore di perdere un lavoro da 5 dollari al giorno. Non può fermarsi neanche adesso, che vorrebbe piangere i bambini che aveva in grembo: «La prima volta ho abortito, e il dottore ha dovuto tirare fuori il bambino. […] La seconda volta ho partorito a sette mesi, era in condizioni critiche […]. È morto dopo 30 ore». Infertilità, aborti spontanei e nati morti sono tragica quotidianità per le tante donne dell’olio di palma.

Indra in piantagione c’è nata. Le donne della sua famiglia vivono e lavorano nello stesso fondo malese da generazioni. Non hanno mai potuto permettersi altro. Ora Indra ha 26 anni, ed è stata una delle migliaia di bambine senza istruzione e, pare, senza via d’uscita: «Sento che è normale – ha detto – Dalla nascita fino ad ora, sono ancora in una piantagione».

«Le nostre vite sono così dure», ripete Ola. Le sanguina il naso e ha difficoltà a respirare dopo 10 anni passati a spruzzare paraquat, pesticida tossico bandito dall’Unione europea e da molti altri Paesi perché collegato all’insorgere di numerosi problemi di salute. In quanto lavoratrice giornaliera, in Indonesia, non gode dell’assistenza sanitaria, e non può permettersi cure private. Guadagna due dollari al giorno.

Marodot, invece, lavora con il glifosato, principio attivo del diserbante Roundup che decine di migliaia di cause legali, intentate negli Stati Uniti contro la società madre Bayer, (chiuse con il pagamento di oltre 10 miliardi di dollari solo qualche mese fa) sostengono abbia provocato gravi malattie, incluso il cancro. «Se il liquido si agita e fuoriesce, scorre anche nelle mie parti intime. Quasi tutte le donne soffrono dello stesso prurito e bruciore», racconta.

Poi ci sono le molestie e gli stupri, che accadono regolarmente tra le palme, in entrambi i Paesi. Rappresentanti sindacali, operatori sanitari, funzionari governativi e avvocati riportano di violenze di gruppo, 12enni aggredite nei campi, adolescenti trafficate come schiave del sesso e date in pasto ai lavoratori ubriachi. Tra i casi di maggior clamore, e anche tra i pochi finiti con una condanna, quello della predicatrice di una chiesa cristiana all’interno di una tenuta indonesiana: è stata legata tra gli alberi, aggredita sessualmente, e poi strangolata.

Se l’Indonesia riconosce il dramma delle donne abusate nelle piantagioni di palme da olio come una preoccupazione crescente e ha predisposto leggi a loro tutela nella consapevolezza che tanto di più si debba ancora fare, il ministero delle donne, della famiglia e dello sviluppo comunitario della Malesia si limita ad attestare l’assenza di segnalazioni al riguardo.

Il silenzio sulle violenze sessuali nelle piantagioni è assordante: «Pensano che accada ovunque, quindi non c’è nulla di cui lamentarsi», dichiara l’ attivista e ricercatore indonesiano Saurlin Siagan. Tanti sono i matrimoni a coprire la vergogna delle gravidanze da stupro. Comuni quelle che Rosita Nengsih, dell’Istituto di assistenza legale per donne, bambini e famiglia nella provincia indonesiana del Kalimantan occidentale, al confine con la Malesia, chiama le “soluzioni di pace”: denaro alle famiglie perché la vittima taccia.

E nei rari casi in cui le vittime parlano, quasi mai gli stupratori pagano. Una ragazzina senza nome sta lì a cullare il figlio che racconta essere nato dalle violenze del suo capo. L’ha stuprata tra gli alberi, e preteso il silenzio con un’ascia alla gola. Ha 16 anni, e lavora in piantagione in Indonesia da quando di anni ne aveva 6. È una delle poche ad aver denunciato: «Voglio che venga arrestato e punito perché non gli importa del bambino. Non si assume alcuna responsabilità». “Insufficienza di prove” le hanno risposto, e la sua accusa cade nel vuoto. Come è accaduto per le due sorelle 13enni violentate ripetutamente dal caporale del podere malese in cui lavoravano, fino a rimanere incinte entrambe a 4 mesi di distanza: «Non è successo niente al caposquadra. È libero», denuncia Nengsih. Come è accaduto per molte, troppe altre.

Violate, sfruttate, umiliate. Sono le «donne invisibili dell’industria dell’olio di palma». Un mondo taciuto, di schiave e dimenticate. Troppo lontano dai modelli femministi promossi dalle campagne pubblicitarie per le firme di cosmetici più affermate. #SpeakOut – “Alza la voce” – recita la campagna lanciata quest’anno da un nota casa produttrice di make-up in occasione della Giornata Internazionale della Donna. Eppure, la voce delle donne dalle piantagioni degli stupri sembra non giungere abbastanza forte.

«Prestate attenzione alle nostre vite», ci supplica Defrida con in mano un rossetto da 20 dollari che le sarebbe costato un carico di pesticidi per 30 acri di terreno scosceso nella giungla.

Siamo sicure che la nostra bellezza valga tanto? Davvero? 


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