Amore, poesia e innovazione: Dante icona Pop

Sono passati 700 anni dalla sua morte, eppure le opere di Dante Alighieri sono come dei brani di buona musica rock classica, che riesci ad apprezzare solo quando hai superato l’età dei brufoli.


Dobbiamo ammetterlo: quando in una conversazione viene nominato Dante Alighieri, una delle reazioni più frequenti è quella di alzare gli occhi al cielo, e magari sbuffare ricordando quelle ore di letteratura italiana un po’ noiose passate tra i banchi di scuola, intenti ad ascoltare distrattamente quelle opere scritte in lingua “volgare” (intesa come “del volgo”, del popolo), di cui Dante sarà il principale diffusore, diventando uno dei primi a utilizzarla al posto del latino, di uso comune per tutte le opere scritte dell’epoca.

I suoi contemporanei guardavano con disprezzo l’uso del volgare nei loro componimenti, poiché lo consideravano una lingua rozza e bassa, popolare, al contrario del latino, elegante, raffinato e aulico. Ma Dante ha una convinzione diametralmente opposta: è proprio per questa sua vicinanza al popolo che il volgare può essere utilizzato per esprimere concetti complessi con sfumature e sfaccettature che solo una lingua parlata può avere, evolvendosi e plasmandosi nel tempo, a fronte dell’immobilità e staticità del latino.

Dante può ben essere considerato l’inventore dell’italiano: fu lui, infatti, ad apportare tutte quelle innovazioni linguistiche, sperimentando termini volgari e latini, che porteranno alla creazione e alla diffusione di quella che poi diventerà, con le adeguate trasformazioni, la lingua italiana.

E ha ragione il povero Dante ad avere quel profilo così corrucciato, bistrattato e maltrattato da sempre da tutti i liceali, considerato un vero e proprio “mattone” noioso e vetusto (la sua Divina Commedia se la gioca soltanto con I promessi sposi di Alessandro Manzoni), studiato quasi sempre per dovere e non per piacere, il Sommo Poeta si sarà rivoltato nella sua tomba vecchia ormai di 700 anni tante di quelle volte da perdere il conto; di sicuro lo avrà fatto nel 2005 e nel 2007, gli anni più recenti in cui alla prima prova dell’esame di maturità è uscito un canto del suo Paradiso come analisi del testo, gettando nel panico migliaia di studenti, che ancora oggi lo ricorderanno.

Ad ogni modo, volenti o nolenti, è un dato di fatto che Dante e la sua poesia facciano indissolubilmente parte del nostro patrimonio culturale. Innumerevoli i modi di dire e le espressioni dantesche che sono entrati prepotentemente nel nostro linguaggio comune: «Non ragioniamo di lor, ma guarda e passa» (Inferno, Canto III, verso 51), utilizzato per ignorare qualcuno, o qualcosa, con elegante indifferenza; il celebre «sanza ‘nfamia e sanza lodo» (Inferno, Canto III, verso 35), che esprime un concetto di mediocrità nei confronti di qualcosa o qualcuno; «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate» (Inferno, Canto III, verso 9), per descrivere in modo volutamente esagerato qualunque situazione di disperazione; «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse» (Inferno, Canto V, verso 137), dove il sostantivo “libro” viene sostituito all’occorrenza da un qualche oggetto specifico per indicare l’inizio di una storia d’amore (“galeotto fu il bicchiere di vino”, “galeotto fu l’esame di diritto privato”, “galeotta fu quella festa”). E in effetti si potrebbe continuare ancora per molto.

Sebbene sia la sua opera più famosa, Dante non è solo Divina Commedia: la Vita Nuova è il suo “romanzo autobiografico”, quello che lui chiama “libro de la mia memoria”, anche se spesso gli studiosi preferiscono guardarlo in modo critico, chiedendosi se effettivamente alcuni episodi siano inventati in tutto o in parte. È proprio nella Vita nuova che Dante ci racconta il suo primo incontro con Beatrice, la donna-angelo che rappresenta quell’amore casto, platonico, puro nella sua essenza più profonda.

«Lui stava per compiere i nove anni, e lei aveva da poco compiuto gli otto: siamo, quindi, nella primavera 1274. Abbiamo detto racconta, ma non è vero, perché non aggiunge nessuna circostanza, se non che Beatrice era vestita di un abitino rosso sangue, e che lui da quell’istante ne fu innamorato»: così lo storico Alessandro Barbero nel suo ultimo libro, Dante (editore Laterza), ci descrive quello che sarà l’incontro che stravolgerà la vita del piccolo Dante.

Stiamo parlando di un innamoramento puerile, ovviamente, ma proprio per questo irrazionale; Barbero, citando la psicologa infantile Silvia Vegetti Finzi ci fa notare che «il primo amore si profila di solito “verso gli otto, nove anni, a volte anche prima”: i conti tornano […]; “sono quasi sempre assolutamente platonici, idealizzati. Non hanno nulla a che fare con la curiosità sessuale o i giochi erotici”. E sono improvvisi e immotivati, l’attrazione scatta “senza un perché: chissà, forse il colore degli occhi, il modo di camminare, di ridere, di saltare” (e forse un abitino rosso sangue, verrebbe da aggiungere» [A. Barbero, Dante, ed. Laterza, 2020, p. 73].

Si incontreranno di nuovo nove anni dopo, nel 1283: Dante ha diciotto anni, Beatrice quasi diciassette ed è già sposata. E lui farà esattamente quello che ci si aspetta da un ragazzino che ha a che fare con le prime turbe d’amore: entrerà nel panico, correrà a casa cercando di non farsi vedere e si chiuderà nella sua stanza. Ma Dante non è un adolescente qualunque: dopo l’incontro e una notte turbolenta, esprimerà la sua agitazione e il suo ardore in un sonetto, A ciasciun’alma presa, ovviamente composto non in latino ma nel suo amato volgare.

Dante innamorato, Dante linguista, Dante poeta, Dante politico: è un uomo del suo tempo, a 360 gradi; dopo il matrimonio con Gemma Donati (avvenuto forse nel 1293), partecipa come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici (in primis Arezzo); gli scontri con Bonifacio VIII, gli anni dell’esilio (prolifici oltremodo, poiché comporrà la Divina Commedia): queste e molte altre informazioni sono in nostro possesso (Dante è tra gli autori medievali di cui si hanno più notizie in assoluto) e ci fanno comprendere quanti aspetti diversi nascondesse il nostro Sommo Poeta.

Molto più apprezzato all’estero che in Italia (manco a dirlo), Dante, anche a distanza di sette secoli non perde il suo fascino. Si potrebbe pensare, erroneamente, che ormai i suoi scritti, e in particolare la Commedia, siano irrimediabilmente vecchi, lontani (700) anni luce dal nostro mondo. Non c’è cosa più sbagliata: Dante scrive di amore, di amicizia, di lealtà, di dolore, di odio, di paura della morte. È vero che lo fa in un linguaggio a volte ostico e complicato, tra allegorie e voli pindarici, ma è anche vero che la Divina Commedia è un tesoro inestimabile che contiene duemila anni di storia e di libri filtrati dalla bravura e dall’interpretazione del poeta più grande di tutti i tempi. E allora vale la pena perdersi in questa poesia, smarrirsi nella selva oscura: tanto arriveremo, prima o poi, a vedere le stelle.


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