Epidemie sul grande schermo: le profezie del cinema

Prima del Covid-19 i registi immaginavano uno scenario catastrofico generato dall’improvviso arrivo di un virus. Un’influenza letale, pazzia che porta al suicidio o semplici, classici zombie o vampiri; oggi la pandemia non è più un film, è divenuta realtà.

«Non toccare nessuno. Non parlare con nessuno. Stai lontano da tutti». Steven Soderbergh nel suo film Contagion (2011) già nove anni fa raccontava uno scenario catastrofico, scatenato da una pandemia mondiale a causa della diffusione del MeV-1. Nel film una semplice influenza diviene letale proprio come il Covid-19. «Molti non credono che qualcosa può avvenire finché non avviene: é natura umana, non stupidità», si dice in The bird box di Susanne Bier (2018).

Certi film ci risvegliano dal torpore mentale e intellettuale: Lars Von Trier li definisce «sassi nelle scarpe», riferendosi al suo film Epidemic (1987); qualcosa che come un pungolo ci costringe a cercare la verità. Il regista danese narra del dottor Mesmer, in cerca di una cura per una moderna epidemia che scopre di aver diffuso lui stesso. Prodotto nel 1987, anche questo film sembra essere stato premonitore del nostro 2020. Il mondo è preso dalla spasmodica ricerca di un vaccino, di una cura, di un miracolo, proprio come negli scenari immaginati.

A proposito dell’analogia tra il cinema drammatico e la realtà non stupisce che gli scienziati della Columbia University abbiamo incaricato proprio il regista e gli interpreti di Contagion, Matt Damon, Kate Winslet, Laurence Fishburne e Jennifer Ehle per la creazione di una serie accessibile da YouTube dal titolo Control the Contagion. Nella serie vengono diffusi fatti, non paura. I volti degli interpreti appaiono in brevi videomessaggi su come comportarsi al tempo del coronavirus.

L’idea di una tramacontagiosa” non è del tutto innovativa. Risale al 1957 uno dei primi film visionari: Ingmar Bergman, nel suo film Il settimo sigillo, immaginò l’arrivo di un male irreversibile nel Nord Europa del XIV secolo. Un duello storico fra un cavaliere e la morte segnò l’esordio dei film epidemici.

Fu invece tra il 1964, 1975 e poi di nuovo nel 2007, che grazie alle tre trasposizioni del romanzo di Richard Matheson, Io sono leggenda, furono portati sul grande schermo i vampiri. Ma il contagio al cinema non si fermò: in La città verrà distrutta all’alba del 1973, George Romero – specialista di zombie movies e autore di cult degli anni Sessanta come La notte dei morti viventi – il nemico è “Trixie”, un’arma batteriologica inarrestabile.

Nel 1995 arriva al cinema Virus letale, film diretto da Wolfgang Petersen, che si ispira all’ebola per raccontare la sua epidemia. Nello stesso anno a fargli concorrenza al cinema arriva un classico della fantascienza post-apocalittica, L’esercito delle 12 scimmie, diretto da Terry Gilliam e interpretato da Bruce Willis. Il film ambientato nel 2035 riporta il protagonista indietro nel tempo sperando di poter cambiare il destino dell’umanità. Nel 2002 Cabin Fever segna il debutto alla regia di Eli Roth, con un horror che lascia gli spettatori senza fiato. Nel 2003 il mondo piomba nel caos a causa del virus “Rage” in 28 giorni dopo film diretto da Danny Boyle. Il film probabilmente ebbe successo anche in seguito alla contemporanea diffusione dell’epidemia di Sars.

Film preveggenti una realtà catastrofica, anticipatori dei giorni che continuano ad essere cercati in streaming, soprattutto in questi giorni in cui lo schermo è divenuto specchio della nostra realtà. Una domanda sorge spontanea: perché questi film hanno seguito se, di fatto, mettono in scena le più grandi paure che tutti noi vorremmo nascondere sotto il tappeto? Perché proprio in questi giorni un titolo come Contagion è tra i più ricercati on line, quando basterebbe accendere il tg per apprendere la notizia di migliaia di morti?

La spiegazione è lapalissiana: tutti questi film non hanno in comune il soggetto contenuto nella trama, bensì il fatto che esorcizzano la paura con il racconto della paura stessa. Inoltre hanno un corollario di fondo: generare speranza attraverso l’angoscia. Lo spettatore, assistendo al peggiore degli scenari, realizza che l’istinto di sopravvivenza è più forte della disperazione e si fortifica con la resistenza dei personaggi.

«La natura è un serial killer, il migliore di tutti, il più creativo, ma come tutti i serial killer non reprime il desiderio di farsi catturare», così esordisce un giovane virologo nel film World War Z (Marc Forster, 2013) e conclude avvisandoci che è nelle nostre debolezze che si cela il tallone d’achille di ogni malvagità. In queste parole c’è la ricerca di speranza che, nel film, porta all’antidoto e ci fa sognare la fine di tutto il disagio nella realtà.

Emil Cioran, filosofo rumeno del XX secolo affermava però che «i sotterfugi della speranza sono altrettanto inefficaci degli argomenti della ragione»; ed è per questo che il nostro cuore continuerà a battere all’impazzata, il respiro muterà in affanno e il corpo sarà attraversato da una scossa “elettrica”. La nostra mente desidererà una soluzione a quelle sensazioni che non si sa spiegare. Cerchiamo aiuto e protezione, così come tentiamo di fuggire da una situazione che desideriamo che cessi.

Sono le nostre inconsce reazioni ai film catastrofici – così come alle dirette straordinarie del Presidente del Consiglio – dove all’improvviso tutto finisce, che lasciano una sensazione di devastazione che ci fa tirare un sospiro di sollievo perché “tutto finirà”. Come spettatori di un film horror dobbiamo aggrapparci a questa sensazione finale, noi spettatori di questo film-realtà che è il 2020. Da The bird box: «La vita non é quella che è ma quello che potrebbe essere».