L’inchiesta per i crimini di guerra in Palestina: inevitabile e necessaria

«Per la prima volta da molto tempo, i palestinesi sono riusciti ad ottenere una reale pressione internazionale su Israele. Israele ha bisogno, per il suo stesso bene, di essere spinta a mettere fine all’occupazione». È così che Adam Keller, portavoce dell’ONG israeliana Gush Shalom, commenta l’intenzione della procura della Corte Penale Internazionale (CPI) di indagare su possibili crimini di guerra commessi nei Territori Palestinesi, inclusa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza.

L’annuncio arriva alla fine di un lungo periodo di esame preliminare, avviato per richiesta della Palestina il 1 gennaio del 2015. In questi cinque anni la procura ha studiato non solo le carte relative alla guerra su Gaza del 2014, ma anche all’occupazione e ai più recenti scontri al confine della Striscia. Per la capo procuratrice Fatou Bensouda ci sono “basi ragionevoli per procedere”. L’indagine dovrebbe includere tutti i presunti crimini perpetrati nei Territori, non solo da Israele, ma anche da Hamas e dagli altri gruppi palestinesi.

Al presente, la palla è in mano ai giudici che dovranno esprimersi sul territorio di giurisdizione: Israele non è membro della CPI, ma la Palestina vi è entrata a far parte nel 2015. Anche in questo caso, Bensouda ha pochi dubbi: la giurisdizione territoriale c’è ed è necessario avviare le indagini quanto prima per il bene delle vittime.

«La regola della Corte internazionale è “non interveniamo nei Paesi che si occupano all’interno del loro stesso sistema giuridico dei crimini commessi dai loro ufficiali”» spiega Keller. «Israele non lo sta facendo. Nei casi in cui dei palestinesi vengono uccisi, l’esercito non indaga assolutamente con serietà. Nelle poche eccezioni, i colpevoli ricevono delle pene ridicole». «Per non parlare degli insediamenti» continua l’attivista israeliano. «Qualcosa di cui sono molto fieri, e su cui stanno investendo molti soldi». «La decisione del tribunale sulla giurisdizione sarà già molto importante» aggiunge Keller. «Perché dipende dal riconoscimento o meno dell’esistenza dello Stato palestinese. Qualsiasi sarà la loro decisione, avrà un grande significato».

Gush Shalom è fra le ong israeliane che sostengono la decisione della procuratrice. Già nel 2002, l’associazione aveva lanciato una campagna contro i crimini di guerra. «Alcuni ufficiali si erano vantati pubblicamente di aver commesso crimini contro il diritto internazionale, come le punizioni collettive. Li allertammo che quelle dichiarazioni erano state registrate, e possibilmente inviate a Corti israeliane e internazionali».

Gush Shalom non è sola. Per Peace Now «questo tipo di pressione internazionale era inevitabile, visto che il governo israeliano continua a distruggere le opportunità di pace anno dopo anno, mentre permette alla situazione umanitaria nei Territori Palestinesi di deteriorare». La minaccia di un’indagine della CPI, aggiunge l’associazione, deve divenire un’“opportunità” per fare dei chiari passi verso un accordo che metta fine al conflitto, verso il ritiro negoziato e coordinato dalla Cisgiordania e la fine del blocco della Striscia.

«Era l’unico esito possibile, dati i fatti» afferma Amit Gilutz, portavoce di B’tselem. «Non si può permettere alle acrobazie giuridiche di Israele per insabbiare i propri crimini di fermare gli sforzi giuridici internazionali – giunti dopo lunga attesa – di chiedere conto del suo operato».

Da parte sua, la classe politica israeliana insorge e accusa la Corte di anti-semitismo. «I politici israeliani respingono l’indagine, ma ne sono preoccupati» conclude Adam Keller. «È la prima vera forma di pressione internazionale che Israele ha in molto tempo. Ci sono voluti cinque anni per arrivare a questo annuncio, spero che l’inchiesta si farà. Per il suo stesso bene, Israele deve essere sottoposta a pressioni internazionali».


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