Il Burundi oppresso da un potere “religiosamente” violento

Di Daniele Monteleone – L’ultima crisi in Burundi inizia convenzionalmente nel 2015 dopo che il presidente Pierre Nkurunziza decide di presentarsi straordinariamente per il terzo mandato, una possibilità non concessa dalla recente Costituzione, dove ne sono previsti solo due. La comunità burundese ha recentemente raggiunto una pace, purtroppo illusoria, tramite gli accordi del 2000 per garantire non solo i lavori per la fine della guerra civile ma anche l’alternanza democratica. Il caos odierno viene però da più lontano e da più in profondità; non basterebbe un articolo a spiegarne a sufficienza le dinamiche e lo sviluppo nei decenni (o nei secoli!).

Le due etnie, hutu e tutsi, sono i due maggior gruppi di potere fra i quali non è nuovo lo scontro, anche sanguinoso – basti pensare al vicino Rwanda. Nel 1993 il presidente burundese Melchior Ndadaye fu impiccato e ucciso a baionettate da militari controllati dai tutsi e fu così che ebbe inizio un lungo periodo di scontri. Negli anni successivi furono eletti quattro presidenti appartenenti agli hutu, e il genocidio ruandese, capace di dare nuova linfa vitale a “pulizie etniche” contro i tutsi, spinse a un processo di stabilizzazione guidato dall’esterno. Nel 1996 il Maggiore tutsi Pierre Buyoya attuò un colpo di Stato con il sostegno di Stati Uniti, Italia, Inghilterra e Vaticano. Fu fortunatamente un golpe incruento e concordato destinato a durare alcuni anni.

Pierre Nkurunziza durante una visita in Sud Africa

E qui che entra in gioco Pierre Nkurunziza, un ex professore di educazione fisica che si aggrega nel 2001 alle milizie hutu delle Forze di Difesa della Democrazia (FDD), le quali si oppongono al colpo di stato e al potere del tutsi Buyoya, e ne ottiene anche la leadership. Nel 2002 Nkurunziza al comando di un esercito di 20 mila miliziani, firma una tregua con il Governo di Pierre Buyoya, ma è solo una falsa pace. Nkurunziza rafforza all’interno del partito armato l’ideologia di morte Hutupower e scredita l’élite di intellettuali hutu favorendo gli estremisti di Ngozi, la sua città natale. Saranno oltre dieci anni di guerriglie e massacri etnici ordinati dall’alto contro i tutsi.

L’odio del capo burundese non è inspiegabile, così come il costante clima di altissima tensione. Nkurunziza è di etnia mista; quando era solo un bambino vede suo padre trucidato da soldati tutsi; cresciuto in un periodo storico dominato dai tutsi, comunque insanguinati da reciproche pulizie etniche con gli hutu, fa parte di una società, una generazione impregnata d’odio. Tutto il popolo burundese sembra sempre incapace di abbandonare il ciclo di vendette etniche in favore di una Nazione multietnica e di convivenza pacifica. In questo contesto la mediazione internazionale inefficace e gli interessi dietro i conflitti armati fanno il resto.

Quest’odio profondo nasce col colonialismo belga, momento nel quale vengono sovvertiti i delicatissimi equilibri di potere tra hutu e tutsi. Questi ultimi costituiscono una netta minoranza del paese, così come accadeva in Rwanda. È vero che nel primo periodo successivo all’indipendenza del Burundi venne favorito il potere degli hutu per le tendenze nazionalistiche dei tutsi, scomode all’influenza e al controllo belga. Ma venuta meno la forza belga, gli equilibri sono andati cambiando, soprattutto nel sostegno esterno occidentale.

Il dittatore burundese Nkurunziza – un fanatico in grado di creare un vero e proprio culto intorno a sé – ha lucidato agli occhi della comunità internazionale il rispetto dei diritti umani con l’abolizione della pena di morte nel 2009. Un provvedimento che arriva dopo che lo stesso Nkurunziza era stato condannato a morte dal tribunale della capitale, Bujumbura, per le violenze coordinate durante il suo mandato da presidente-dittatore. Nel 2017, per sottrarsi alla inchiesta giudiziaria per crimini contro l’umanità varata presso la Corte Penale Internazionale, decreta l’uscita dalla CPI, e con la stessa “tecnica”, per l’indagine delle Nazioni Unite sul rispetto dei diritti umani, ha chiuso gli uffici della capitale burundese dell’Alto Commissariato Onu. Una fuga per la vittoria che di fatto continua.

L’imbattibile – a quanto sembra – leader burundese è capo di una vera e propria dottrina religiosa e politica. Che significa dominio assoluto e nulla di più. Nkurunziza ha progressivamente imposto l’ideologia razziale HutuPower fino a chiarire nel 2018 che l’obiettivo del suo governo è la creazione di un regno monoetnico con lui, ovviamente, a capo come re sacerdote per diritto divino. Il dittatore voluto da dio è convinto che gli sia stata affidata la missione di costruire una grande nazione hutu. Mentre la moglie – o la regina, dipende come la si vede – ricopre il ruolo di grande sacerdotessa.

Il sacerdote hutu – fa impressione chiamare così un capo politico – ha astutamente sbaragliato tutta la concorrenza negli anni: gli oppositori politici, le minoranze moderate dentro il suo stesso movimento, gli estremisti nazionalisti che costituivano una minaccia al suo potere, possibili rivali alle elezioni, i media indipendenti, perfino collaboratori molto vicini a lui. Tutti, in un modo o in un altro, fatti sparire, uccisi, cacciati fuori dal Burundi. E tutt’oggi viene mantenuto un clima di odio, soprattutto con campagne social di comunicazione totalmente manipolata e mirata all’ottenimento del consenso, oltre che con la diffusione dell’ideologia estremista hutu. Continuano a stento le manifestazioni, le proteste della popolazione che vuole un potere eletto liberamente e non un dittatore.

La polizia burundese insegue i manifestanti che protestano contro il terzo mandato (2015)

Più di un errore internazionale ha permesso al dittatore di imporsi e continuare a farlo indisturbato. La scelta iniziale di favorirlo nel suo primo mandato non era “obbligata”, come fu dichiarato dopo la firma della pace del 2002. Nkurunziza era e resta un criminale di guerra tale e quale agli altri leader estremisti delle altre formazioni allora pretendenti al potere. La comunità internazionale non fu – e non è – in grado di mediare trovando un esponente moderato che potesse garantire stabilità senza violente repressioni. Altra questione è quella dei missionari: presenti da diversi decenni in Burundi, in particolare dalla comunità di Sant’Egidio, hanno a lungo appoggiato il dittatore burundese per la presenza di alcuni esponenti interni vicini all’ideologia estremista Hutupower, salvo poi ricredersi dopo un dibattito interno stimolato da Papa Francesco.

Ma sono gli importanti alleati a tenere questo regime in piedi: TurchiaRussiaEgittoCina, tutti complici grazie alla possibilità di sfruttamento dei giacimenti di nichel e materiali rari che il Burundi possiede. E la carta del genocidio, nel caso di un aperto appoggio militare internazionale ai tutsi, ha bloccato qualunque offensiva militare di distruzione della dittatura. Un potere che non conosce confini e che probabilmente porterà Nkurunziza a vincere le prossime elezioni presidenziali del 2020 con il quarto mandato consecutivo. Un passaggio che potrebbe portare definitivamente a un vero e proprio regno: il nuovo Regno Hutu. Una creazione basata però su un piano geopolitico più ampio: quello che distribuirebbe fra gli hutu e i tutsi, rispettivamente, il Burundi e il Rwanda, con l’aiuto forte della Francia, alleata dell’ultimo anno del dittatore burundese, al quale ha dato un grosso sostengo economico per il settore educativo e formativo. Ripensando al coinvolgimento francese nel caso ruandese, non si può non pensare che ci sia ben altro sotto.


Foto in copertina Landry Nshimiye/AFP/Getty Image

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