La democrazia illiberale di Viktor Orbán: è giunta la fine dei diritti civili?

Di Sara Sucato  Democrazia illiberale. Semanticamente parlando, un ossimoro. Da un punto di vista empirico, una realtà in continua crescita nel continente europeo, di cui si è fatto portavoce e rappresentante il Primo Ministro ungherese, Viktor Orbán.

Di cosa parliamo quando accostiamo questi due termini che esprimono un’evidente contraddizione? La locuzione, usata per la prima volta nel 1997 dal giornalista indiano Fareed Zakaria, fa riferimento ad un sistema di governo nel quale le elezioni siano formalmente libere, mentre i diritti e le libertà civili risultino fortemente limitati in nome di principi più alti da difendere dal rischio di corruzione.

HUNGARY-POLITICS-ORBANIl premier ungherese parlava dell’istituzione di una democrazia illiberale già all’inizio del suo terzo mandato, nel luglio del 2014. In quell’occasione, Orbán constatava la morte del modello democratico occidentale, sottolineando come il futuro dell’Europa si sarebbe ben presto volto verso l’esempio autoritario di Russia, Cina e Turchia per poter rimanere prospero e crescere. Secondo il primo ministro, i valori liberali occidentali, promotori e difensori del multiculturalismo, dell’immigrazione e di differenti modelli familiari, hanno comportato una degenerazione verso la corruzione, la violenza e la promiscuità sessuale.

I valori che la democrazia illiberale deve difendere sono quelli tradizionali della cultura cristiana: la famiglia, la nazione e la dignità umana. Questa visione della forma di governo non comporta una commistione tra religione e politica, ma piuttosto la creazione di un universo comune e condiviso al quale fare riferimento, e attraverso il quale stabilire un confine netto tra ciò che vi appartiene e ciò che ne deve essere escluso. Allo stato attuale delle cose, la premiership di Orbán costituisce l’esempio più lampante della crisi della democrazia liberale, la quale, incapace di fornire una soluzione a quelli che sono percepiti come problemi dalla maggioranza, permette che la limitazione delle libertà civili sia sostenuta da un consenso ottenuto attraverso elezioni formalmente libere.

A sua volta, il consenso viene costruito su pochi e semplici elementi, corroborati da una retorica che quasi stordisce l’uditorio: la presunta esistenza di un pericolo esterno che minacci l’integrità della nazione, la necessità di far fronte comune per difendersi, il far leva su una paura diffusa o un problema percepito dalla maggioranza, elemento che non implica l’esistenza del problema stesso.

headlineImage.adapt.1460.high.hungary_serbian_border.1442425602799Nessun dato certo, nessuna possibilità di informazione imparziale e libera, nessuna possibilità di mediazione: piuttosto, chiusura totale nei confronti dell’esterno per scongiurare la fine del popolo ungherese e ricorso alla retorica della guerra in perfetto stile populista. Lo scopo di tale conduzione della politica, oltre a riconfermare la vittoria del partito leader, è quello di distogliere l’attenzione dai problemi reali della nazione o, nella maggior parte dei casi, farli risalire ad un unico capro espiatorio, senza peraltro fornire alcuna soluzione, né un sistematico programma di governo.

Nel contesto ungherese, così come in altre realtà vicine a questo modello di democrazia illiberale, non si è potuto prescindere dall’utilizzo dei mass media, scientemente manipolati dalla compagine governativa. Il premier ungherese, seguendo i più grandi esempi autoritari della storia, ha ottenuto il controllo della maggior parte di testate e notiziari nazionali attraverso il lavoro di sapienti oligarchi i quali, acquisendone quote societarie rilevanti, ne hanno poi decretato la fine o reindirizzato il target verso argomenti compatibili con le disposizioni governative.

Budapest rappresenta l’unica vera roccaforte della ribellione al governo Orbán, giunto al suo quarto mandato grazie al sostegno della popolazione delle zone rurali e periferiche. Nonostante la campagna anti-Soros e la battaglia contro le poche istituzioni che fanno cultura e ricerca in modo indipendente, i giovani e il ceto medio della capitale si fanno portavoce del dissenso che scuote gli animi. Molti sono stati invitati dalle scuole o dalle istituzioni culturali, controllate da Fidesz – il partito di governo – ad abbandonare la ribellione dal momento che questa comporterebbe un taglio dei finanziamenti statali e comunali, stanziati dallo stesso partito.

Giornalisti dissidenti, attraverso i loro lavori di inchiesta, hanno potuto constatare come i mezzi di comunicazione del regime, in modo intensivo durante l’ultima campagna elettorale incentrata sul tema dell’immigrazione, abbiano trasmesso articoli o servizi non sostenuti da alcuna fonte, anonimi, e in molti casi contenenti dati falsi. In ogni caso, smentire i media governativi risulta pressoché impossibile anche a causa della pressione esercitata sulle forze armate.

Il secondo perno attorno cui ruota il programma controverso costruito da Viktor Orbán è l’euroscetticismo, tema di cui si è reso portavoce e capofila nell’intero continente. È proprio a causa delle politiche liberali di Bruxelles, secondo il premier ungherese, che l’Europa sta vedendo il declino dei tradizionali valori cristiani e la soppressione della popolazione bianca in favore di una commistione tra razze ed etnie.

Le élite che governano l’Unione Europea hanno fallito su tutti i fronti e, nonostante tutto, continuano a difendere strenuamente i trattati che hanno decretato la fine di questo ambizioso progetto internazionale. Tuttavia, da un punto di vista prettamente economico, l’Ungheria ha avuto solamente da guadagnare prolungando la propria permanenza nella cerchia dei Paesi membri dell’UE. I dati della Commissione parlano chiaro e non lasciano spazio a interpretazioni: nel 2016, l’Ue ha speso in Ungheria 4,546 milioni di euro a fronte di un contributo nazionale al bilancio dell’Unione di 924 milioni. Attualmente, oltre il 95% degli investimenti pubblici, dal sistema idrico alle infrastrutture alla ricerca sul cancro, in Ungheria sono co-finanziati dall’UE. Fondi di cui la nazione ha bisogno per poter raggiungere gli auspicati livelli di crescita degli altri Paesi del gruppo Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia).

È indubbio che la politica di Viktor Orbán stia diventando un modello seguito da altri paesi d’Europa, nonostante – o forse grazie a – la forte deriva illiberale. Per molti, il regime ungherese rimane comunque una democrazia, rappresentando una contraddizione in termini, ma un punto di forza per la propaganda dello Stato, il quale non rinnega in toto i valori liberali, ma li applica da un punto di vista nazionalistico. Orbán sta guidando l’Unione e la propria nazione in una crociata contro le ong, il diverso, l’estraneo, contro la cultura e l’informazione in un circolo vizioso che sembra raccogliere sempre più consensi e non incontrare alcun ostacolo in un’opposizione frastagliata e debole a livello nazionale e internazionale.


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