Rita Atria, la “picciridda” che sognava un mondo onesto

 

Nata in una famiglia di mafiosi di Partanna, cittadina del trapanese, Rita Atria è stata una “vittima indiretta” dell’attentato del 19 luglio 1992 al giudice Paolo Borsellino. Alla tenera età di 11 anni perse il padre, allevatore di pecore ma in realtà boss locale, ucciso dalla cosca dei Corleonesi. A prendere il suo posto fu Nicola, fratello maggiore di Rita. Il rapporto fra i due fratelli divenne sempre più intenso e complice, tanto che Nicola raccontò alla sorella tutti i segreti della mafia del paese, gli intrecci, le gerarchie e i responsabili dell’omicidio del padre.

Quando anche Nicola fu assassinato, la cognata di Rita, contraria alle attività illecite del marito, decise di denunciare gli assassini e, diventata testimone di giustizia, fu trasferita in una località segreta.

«Rita, non t’immischiare, non fare fesserie», le diceva continuamente la madre, ma Rita non voleva ascoltarla. In poco tempo si trovò ad essere lasciata dal fidanzato (poiché cognata di una pentita), e rinnegata dalla madre. Fu così che decise di rivendicare la morte dei suoi cari, e lo fece presentandosi al Procuratore di Marsala, allora Paolo Borsellino, per raccontargli tutto ciò che sapeva sulla cosca mafiosa del paese: le dichiarazioni di Rita portarono all’arresto di decine di persone.

Per il giudice Rita era la picciridda (la bambina). Rita si fidava di Borsellino, e tra loro si creò un rapporto confidenziale, tanto da chiamarlo “zio Paolo”: frequentava i familiari del giudice, che la coccolavano e la riempivano di regali, attenzioni e affetto, quell’affetto che non aveva mai ricevuto dalla sua famiglia.

La sua sete di giustizia le costò cara: a causa delle tante minacce ricevute, Rita fu costretta a cambiare identità e a vivere sotto protezione. La picciridda di Borsellino diceva: «Tutti hanno paura, ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà, e che quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi».

Nonostante la sua forza, la tenacia, la voglia di lottare per vivere in un mondo onesto, la giovane Rita non riuscì a sopportare il grande dolore per la perdita del giudice. Nel suo diario esprimeva pensieri di condanna per la cultura mafiosa: «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita… Prima di combattere la mafia devi farti un esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combatterla nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta».

E così, il 26 luglio 1992, una settimana dopo la morte del giudice Borsellino, Rita si uccise gettandosi dalla finestra del suo appartamento al settimo piano in via Amelia a Roma. Aveva solamente 17 anni.

Il funerale si tenne a Partanna, il luogo che l’aveva ripudiata. Nessuno del paese partecipò alla commemorazione, neppure la madre che, a distanza di qualche tempo, distrusse a colpi di martello la lapide di Rita posta sulla tomba di famiglia.

Oggi sulla tomba di famiglia ci sono due lapidi: una posta per volere della sorella di Rita, mentre un’altra è stata posta da chi ha sostenuto la sua scelta. All’entrata del cimitero l’associazione Libera, alla presenza di Don Luigi Ciotti, ha posto una targa perché si rendesse giustizia a questa giovane ragazza che ha sacrificato la sua vita per un mondo onesto.

Rita si ribellò a quell’ordine prestabilito dettato dal codice d’onore, sacrificando la sua vita per inseguire il sogno di un mondo pulito. Era soltanto un’adolescente quando capì che l’omertà non era l’unica strada percorribile. Grazie a lei molte donne hanno trovato il coraggio di denunciare e collaborare con la giustizia, e anche per questo Rita non deve essere dimenticata.


 

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