Come la mafia parla, scrive, comunica: “Il linguaggio mafioso” di Giuseppe Paternostro

Di Silvia Scalisi – Di libri che raccontano storie di mafia, più o meno conosciute, se ne trovano decine sugli scaffali delle librerie, italiane e non solo. Libri che raccontano aneddoti, che svelano retroscena (o che, quantomeno, tentano di farlo) su un’organizzazione criminale di dimensioni tentacolari, diffusa a livello internazionale.

Pochi, invece, sono quei testi che si prefiggono come obiettivo precipuo quello di indagare e studiare il linguaggio mafioso, in ogni sua sfaccettatura, analizzando e distinguendo quella che è la comunicazione interna, tra gli affiliati dell’organizzazione stessa, dalla comunicazione esterna.

Proprio qui sta l’originalità nella scelta della casa editrice indipendente Aut Aut Edizioni (di Francesca Calà e Salvo Spitalieri) di pubblicare un testo che si focalizzasse sull’aspetto linguistico di un’associazione che, apparentemente, sembra aver fatto del silenzio (la “classica” omertà) la principale forma di comunicazione.

Invece Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica italiana all’Università di Palermo e autore del libro “Il linguaggio mafioso”, cerca di sfatare questo falso mito, sottolineando, al contrario, quello che sembrerebbe un paradosso: e cioè che la mafia parla, la mafia ascolta, la mafia scrive; in una parola, la mafia comunica, da sempre.

E come avviene questa comunicazione? “Pizzini”, intercettazioni, lettere di scrocco, testimonianze: sono tutti elementi che hanno creato nel tempo (e creano tuttora) un tessuto articolato e complesso di significati nascosti, un linguaggio “detto-non detto”, dove non ci si deve mai fermare al primo livello di lettura, ma, piuttosto, andare oltre il velo costante di ambiguità.

Un’ambiguità talmente tanto radicata nel modo di intendere il significato di alcune parole, o di alcune frasi, che in più occasioni soggetti «che parlano la stessa lingua […] temono vicendevolmente che l’altro parli in qualche momento una varietà particolare di quella lingua» (“Il linguaggio mafioso”, cap. I, p. 23), come si evince chiaramente da uno stralcio riportato da un’intervista fatta da Enzo Biagi a Tommaso Buscetta, nella quale i due sentono l’esigenza di disambiguare il significato di termini apparentemente semplici, quali “famiglia” (consanguinei, parenti, cosca?), o come il verbo “sistemare” riferito alle persone (inteso come “uccidere”, o “trovare un lavoro”?).

L’analisi del libro si spinge fino ad indagare la mentalità perversa che ha spinto i c.d. pentiti a collaborare con la giustizia: non per un pentimento reale, bensì per un disconoscimento di quei comportamenti che non sarebbero più conformi al “codice mafioso” tradizionale (non si toccano i bambini, non si toccano le donne, per citare alcuni esempi di “valori” mafiosi), conferendo alla mafia un’accezione positiva di strumento per la difesa dei più deboli.

Emblematica, in tal senso, l’affermazione di Buscetta in Corte d’Assise: «Io non sono pentito perché non ho niente da cosa pentirmi. Quello che ero io rimango. Io non condivido più quella struttura alla quale io appartenevo.» (“Il linguaggio mafioso”, cap. I, prg. 5, p. 54); quasi a lasciar intendere l’esistenza di una “nuova mafia”, colpevole di aver tradito se stessa e il suo secolare spirito.

Una mafia che, se non può essere negata nella sua esistenza, può sicuramente essere ridotta, minimizzata, generalizzata, utilizzando una strategia verbale sottile ed enigmatica. Una mafia che nel corso dei decenni ha saputo adeguarsi ai nuovi scenari sociali, alle nuove forme di comunicazione, per così dire “moderne” (social network, in primis), senza mai abbandonare quel tratto intimidatorio e criptico che da sempre l’ha caratterizzata.

“Il linguaggio mafioso” si addentra in questo difficile percorso, e costruisce una riflessione analitica e accurata di quello che può essere il potere della lingua, scritta e orale: un linguaggio spesso dialettale (o che tenta di tradurre in lingua italiana forme palesemente dialettali), composto da frasi sgrammaticate, spesso sconnesse, ma che, nonostante tutto, riesce ad essere recepito perfettamente e inequivocabilmente dai suoi destinatari, quegli “uomini d’onore” che sanno interpretare gesti, parole, silenzi.