La questione razziale al centro del dibattito nella corsa alla Casa Bianca

Di Antinea Pasta – «La polizia ha sparato a mio padre quattro volte perché è nero. Mio padre è morto, è morto, è morto!». Così urla Lyric Scott, la figlia di Keith Lamont Scott, l’ennesimo cittadino afroamericano ucciso dalla polizia a Charlotte, nel North Carolina, nel video postato su Facebook dalla giovane, riaccendendo la protesta razziale negli Stati Uniti.

Scott, ucciso mentre si trovava all’interno della sua auto perché scambiato per un altro uomo ricercato, pare fosse disarmato, o meglio in mano teneva un libro che leggeva in attesa del figlio. Per gli agenti, invece, aveva una pistola. A seguito della diffusione del video, le strade della città si riempiono di gente che protesta e non tardano ad arrivare gli scontri con la polizia. Pochi giorni prima un altro caso: una poliziotta spara ad un giovane nero, Terence Crutcher, visibilmente disarmato e con le mani poggiate sul cofano dell’auto.

Questi ultimi fatti si aggiungono agli altri episodi di violenza tra polizia e cittadini neri che hanno caratterizzato gli ultimi scampoli della presidenza Obama, esacerbando la mai davvero risolta questione razziale.

Già, perché se la segregazione dei neri afroamericani sembrava un ricordo (non così lontano, bisognerà aspettare il 1968 prima che la Corte Suprema si pronunci sancendo che i posti sui bus, i bagni, le scuole e i locali per soli neri non dovessero esistere più); se le manifestazioni di piazza, le proteste, la lotta ai diritti civili guidati da leader come Martin Luter King e Malcom X sembravano aver sancito definitivamente il principio di uguaglianza presente nella Carta d’Indipendenza Americana; se le elezioni presidenziali avevano portato alla vittoria del primo Presidente nero della storia; oggi tutto questo pare essere in contraddizione con i numeri e le statistiche. Una Commissione del Congresso americano, nel 2010, ha stabilito che, in media, i neri americani sono condannati a pene più lunghe del 10 per cento rispetto ai bianchi e, secondo i dati del Dipartimento alla Giustizia, i maschi afroamericani nati nel 2001 hanno il 32 per cento di possibilità di finire in galera durante la loro vita contro il 6 per cento dei bianchi. 

Gli ultimi eventi e i numeri ci dicono che probabilmente l’America non ha mai davvero fatto i conti con la sua storia e che la crisi economica, la crescente diseguaglianza, il disagio diffuso nella classe media americana non ha fatto altro che acuire le tensioni razziali.

San Bernardino, Orlando, Dallas, Baton Rouge, Tulsa e Charlotte chiedono risposte efficaci e i due candidati alla Casa Bianca, Hillary Clinton e Donald Trump, sono chiamati a fornirle.

Le ricette proposte dai due contendenti sono molto diverse e le sono state ribadite durante il primo dei tre confronti televisivi che precederanno le elezioni di novembre.

La Clinton, che dovrebbe raccogliere la maggioranza dei voti della comunità nera, pochi giorni fa aveva detto: «le violenze sono troppe, intollerabili, devono smettere». «Dobbiamo ricostruire la fiducia attraverso il rispetto reciproco tra le comunità e le forze di polizia- ha aggiunto l’ex first lady durante il dibattito –  Riformare il nostro sistema di giustizia penale. Limitare l’accesso alle armi. Chiudere le prigioni private gestite a scopo di lucro. C’è un razzismo implicito quando i giovani neri per gli stessi reati finiscono in carcere molto più dei bianchi». La Clinton si mostra sensibile nei confronti delle comunità nera e aperta verso le posizioni dei Black Lives Matters, un movimento politico che al grido di “Hands up, don’t shoot”, “ho le mani alzate, non sparate”, – lo slogan più famoso –  si batte per i diritti civili dei neri. Affronta anche un’altra tematica a questa strettamente legata e per la quale il Presidente Obama si è fortemente battuto, ma invano, a causa dell’ostilità del Congresso a maggioranza repubblicana: la diffusione e la libera vendita delle armi da fuoco.

Alle posizioni concilianti e dialoganti della leader democratica si oppongono gli slogan all’insegna del «law and order» di Donald Trump. Trump che non ha certo voti da perdere nella comunità afro ha sempre soffiato sul fuoco. Durante il confronto tv, si è mostrato leggermente più misurato e ha ribadito: «legge e ordine: se non li abbiamo, non abbiamo più una nazione. I quartieri degradati delle nostre città sono un inferno. Sembriamo un paese devastato da una guerra. Le gang sono piene di immigrati clandestini. Le associazioni di polizia stanno dalla mia parte. Dobbiamo ripristinare il metodo ‘stop & frisk’ (pratica adottata dalla polizia di New York di fermare e perquisire persone per le strade anche senza un valido motivo)». Che The Donald abbia deciso di abbassare i toni contro ispanici e neri si era già percepito nei giorni scorsi quando alle domande sui fatti di Tulsa aveva risposto: «quell’agente a Tulsa? Non ho idea di cosa stesse pensando. Forse certa gente semplicemente non dovrebbe fare certi lavori». Probabilmente non può perdere voti su questo versante ma, puntando sulla crescente insicurezza, potrebbe guadarne qualcuno.

Dunque, pur nella diversità di opinioni, almeno sulla questione razziale il punteggio è di uno ad uno. Entrambi i candidati non si sono discostati poi tanto dalle loro abituali affermazioni e le soluzioni proposte rispecchiano l’elettorato di riferimento.  Il che non è detto che sia un bene, né la Clinton né Trump riescono ad entusiasmare e a rispecchiare fino in fondo il desiderio di cambiamento di un’America che si trova di fronte a mutamenti epocali e alle cui fondamenta risiede la multiculturalità.


 

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