“Costituzione sospesa”: la Turchia perde pezzi di democrazia

ANAYASA ASKIDA” urlava il quotidiano turco Zaman poco più di una settimana fa. Detto così non suscita grande scalpore nel lettore medio europeo, ma non è una condizione dettata dalla più elementare ragione della differenza linguistica, quanto piuttosto dalla normale sordità e cecità di cui è affetta la buona metà di un popolo-non-popolo, quali gli Europei. Il 4 Marzo, Zaman, il quotidiano di opposizione al governo Erdoğan con maggiore diffusione in Turchia – tiratura media giornaliera di seicentocinquantamila copie – cambiava repentinamente gestione. Nella serata di quel venerdì la polizia ha fatto irruzione nella sede della redazione, nella zona ovest di Istanbul, a seguito di un’azione promossa dal Procuratore Generale di Istanbul, il quale chiedeva ad un tribunale della metropoli di esprimersi in merito all’amministrazione del quotidiano e degli altri media del gruppo editoriale di riferimento, il Feza Media Group. Il blitz avviene come la più classica delle repressioni: una quantità di persone non ben definita che protesta fragorosamente (in questo caso circa cinquecento, tra dipendenti ma soprattutto lettori del giornale) e l’intervento delle forze dell’ordine con fumogeni e idranti mirati a disperdere e disorientare i dissidenti tra scontri e spintoni sia all’esterno che all’interno dell’edificio lavorativo. La polizia ha inoltre distrutto diverse telecamere che stavano riprendendo gli scontri, e la vicenda riportata sul quotidiano in versione online ha visto la luce per poco, prima di essere oscurata.

Si legge, nelle pagine salvate dalla censura e dirottate su altri siti sicuri, che i protestanti che presidiavano l’area antistante i cancelli di entrata alla redazione sotto una pioggia battente e con in mano slogan come “Giù le mani dal mio giornale!” sono stati letteralmente scardinati dall’azione di forza che ha permesso ai poliziotti di aprire una breccia ed entrare, prima intervenendo direttamente sul cancello di metallo con una sega elettrica, poi facendosi strada tra la gente che gli inveiva contro. Conquistata la redazione, lo scacco matto è servito: i nuovi vertici della redazione prendono il comando della testata. In particolare prendono posto alla direzione due avvocati – o meglio, due gorilla del presidente turco Erdoğan – Tahsin Kaplan e Metin Ilhan, ed un noto sostenitore del governo, Sezai Sengonul, anche lui avvocato ma redattore di un altro sito di informazione turco.

Al mattino di sabato 5 Marzo andava in scena l’impietoso spettacolo di un’ importante testata giornalistica costretta ad emettere il canto del cigno della libera informazione, con un titolo campeggiante in prima pagina su sfondo nero “Un giorno vergognoso per la stampa libera in Turchia” già andato in stampa prima del blitz nella redazione. Al ritorno negli uffici e alla apparente normalità, molti redattori si sono ritrovati con una scadente, se non assente, connessione ad internet, molti giornalisti hanno trovato impossibile l’accesso alle proprie caselle mail ed i nuovi amministratori hanno tentato di cancellare gli archivi online del giornale. “Stanno staccando la spina a tutto” scrive Abdullah Bozkurt, un giornalista di Zaman.

Di chi stiamo parlando? Il gruppo proprietario di questo complesso editoriale, Il Feza Media Group, possiede, oltre che il quotidiano Zaman, anche la versione in inglese Today’s Zaman, il settimanale Aksiyon e l’agenzia di stampa Cihan, principale agenzia in grado di fornire copertura a livello nazionale delle operazioni di scrutinio durante le elezioni, anch’essa commissariata in seguito al cambio di passo al vertice. Ed è proprio alla produzione ed alla pubblicazione del quotidiano Yarina Bakis, come riferimento parallelo ed alternativo a Zaman ormai commissariato e quindi di fatto evolutosi in filo-governativo, che l’agenzia Cihan ha ricevuto accuse di terrorismo e di tentato colpo di Stato da parte della seconda agenzia di informazione nazionale, Anadolu, neanche a dirlo, di proprietà statale.

Il colosso editoriale e finanziario di cui parliamo, il Feza Media Group, conta fra le sue file Ekrem Dumanli nel ruolo di guida editoriale. Giornalista e scrittore proveniente da studi specialistici negli States, inserito nella lista redatta dalla Georgetown University “I 500 musulmani più influenti del 2009”, è già incappato nella stretta morsa del governo turco nei confronti dei media, nel Dicembre 2014. Arrestato insieme ad una dozzina di suoi colleghi giornalisti con l’accusa di “comandare, addestrare e militare in un’organizzazione terroristica”, in una rocambolesca operazione di polizia – e di pulizia – nell’urlo comune “un giornale libero non può essere oscurato!”, dopo breve tempo Dumanli è stato rilasciato insieme ad altri sette suoi colleghi per insufficienza di prove. Il giornalista turco ha scritto per il Washington Post a proposito della sua esperienza, dagli ostacoli alla libertà di stampa al suo clamoroso arresto, affermando in particolare “Il mio giornale, Zaman, ed io siamo le ultime vittime della caccia alle streghe di Erdoğan”. Non è l’unico ad esprimersi così, ma lontano dal proprio paese, oggi, risulta più agevole.

L’accanimento nei confronti del Feza Group, definita da Erdoğan una “organizzazione terroristica Fethullahista”, ha chiare e nitide ragioni, e perlomeno all’analisi dei fatti, quelle che il governo Erdoğan mette in atto sono misure dettate da un recente scontro – che va avanti da quasi due anni – con un vecchio alleato, Fethullah Gülen, un esponente religioso che predica un modello più moderato dell’Islam e che dal 1999 vive in un esilio auto-imposto negli Stati Uniti. Tra le principali accuse che gli vengono rivolte dal presidente turco vi è la “costruzione di uno Stato parallelo al governo in Turchia” con l’obiettivo di rovesciarlo, ed il conseguente sospetto legame all’organizzazione politica armata PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che da anni combatte per l’indipendenza del popolo curdo attualmente all’interno del territorio turco. Accuse di alto tradimento e terrorismo sono abitualmente rivolte a chi si oppone o si esprime in opposizione alla linea governativa.

L’attacco ad un’intera linea giornalistica, l’assalto ad un’intera branca dell’informazione non corrotta è avvenuto nello stato sognatore di una identità – e idoneità – europea ed attuatore di una compressione dei più essenziali principi democratici. Anche un importante baluardo dell’informazione di opposizione, Zaman, ha cambiato linea politica, fatto testimoniato dall’uscita di domenica 6 Marzo: “Grande trepidazione per il nuovo ponte” – in riferimento alla fine dei lavori di costruzione di un ponte sullo stretto del Bosforo – ed una grande e gloriosa immagine del presidente turco in prima pagina. In poche ore un quotidiano di informazione libero da influenze politiche si è trasformato in uno strumento di propaganda governativa, e non è la prima volta che avvengono queste improvvise trasformazioni. Pochi giorni fa sono state interrotte le trasmissioni di una emittente indipendente IMC TV – tanto per cambiare – con l’accusa di terrorismo. Nell’Ottobre del 2015 due televisioni e due giornali di proprietà della Koza Ipek Holding venivano trasferiti all’amministrazione “amica” con l’accusa di “terrorismo finanziario”. Nello stesso mese il direttore di Today’s Zaman, Bulent Kenes, era stato arrestato per dei tweet diffamatori contro Erdoğan, il quale non si era arreso al silenzio impostogli e alla condanna a tre mesi di carcere affermando che “combatterà per la libertà e la democrazia” ed aggiungendo “Non riuscirete a costringere al silenzio uno spirito libero, nemmeno se lo mandate in prigione”.

In Novembre erano stati arrestati Can Dundar ed Erdem Gul, il direttore ed il capo della redazione di Cumhuriyet, altro giornale di opposizione, con l’accusa di spionaggio per aver riportato sul giornale informazioni segrete riguardanti l’esportazione di armi in Siria ad equipaggiamento di ribelli islamisti. Con i due arrestati ad un passo dall’ergastolo, l’azione è stata recentemente rovesciata dalla sentenza della Corte Costituzionale che, il 24 Febbraio, ha dichiarato l’arresto “una violazione dei diritti fondamentali degli accusati”, a dimostrazione di una, seppur flebile, resistenza al governo da parte di un’istituzione molto importante come la Corte Costituzionale, la quale non deve sottostare al controllo governativo. Ma anche quest’ultima non è sfuggita all’occhio attento del presidente. Apre le danze sostenendo che le decisioni in merito alle scarcerazioni sono “contro il Paese” e con una velata – neanche tanto – questione di legittimità: “Non rispetto la decisione di un’istituzione che a sua volta non rispetta i diritti e gli interessi della popolazione di questo Paese. Spero che la Corte non ripeta gli stessi passi che sollevano dubbi sulla sua legittimità”. Una già lunga storia destinata ad evolversi ancora in vista dei riusciti negoziati con l’Unione Europea in sede di gestione dell’immigrazione, altro tema su cui Erdoğan eserciterà la sua politica elusiva e repressiva.


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