Razzismo e Illuminismo, gemelli diversi

Sebbene tutti ricorderemo il 2020 come l’anno della pandemia, quest’anno sarà stato anche un momento di riflessione globale sul razzismo, sulle sue vittime e sulle sue radici storiche e ideologiche.


Giugno 2020, Edimburgo. Durante una delle innumerevoli manifestazioni di solidarietà a George Floyd e al movimento Black Lives Matter in giro per il mondo, tra distanziamento sociale e cartelli con scritte più o meno originali, l’occhio cade su uno di questi, appoggiato su una statua. Il cartello recita: “sono propenso a sospettare che i negri siano naturalmente inferiori ai bianchi”. La statua è quella di David Hume, celebre filosofo del settecento, protagonista della stagione dell’Illuminismo scozzese. La frase, sebbene possa suonare strano a chi Hume l’ha studiato a scuola e all’università, è sua.

Qualcuno potrebbe pensare si tratti dell’ennesimo paradosso della storia, che in fondo Hume era un uomo del suo tempo e come tutti era influenzato da credenze allora ritenute normali e giustificabili. Qualcun altro potrebbe affermare che in fondo si tratti di un’eccezione, e che una posizione del genere fosse minoritaria all’interno di un filone di pensiero tradizionalmente ritenuto progressista e artefice della modernità politica. In realtà, basta scavare appena un po’ al di sotto dell’immagine agiografica che dell’Illuminismo viene offerta da due secoli a questa parte, per realizzare che la regola è un’altra, e l’eccezione è ben diversa da come si potrebbe immaginare.

La norma era il razzismo, per tutti i pensatori illuministi. Dato che questa affermazione potrebbe suonare azzardata, è bene fare un po’ di chiarezza concettuale. Di che cosa parliamo quando parliamo di razzismo? Fondamentalmente, di due cose: l’esistenza della razza in senso biologico e un insieme di idee e pratiche esplicitamente discriminatorie fondate su di essa. Non parliamo dunque di semplice xenofobia né di etnocentrismo, ma di qualcosa di diverso e di profondamente moderno. A spiegarlo in modo pressoché definitivo è stato George Fredrickson, nel suo celebre saggio Breve storia del razzismo, la cui prima pubblicazione risale al 2002.

Il discorso di Fredrickson è sintetizzabile in questo modo: sebbene la paura e la diffidenza nei confronti dell’Altro accompagnino da sempre tutte le civiltà della storia, la differenza fondamentale (e la caratteristica del razzismo moderno) è che prima della modernità le discriminazioni erano di natura culturalista ed etnica, non biologica né legate all’essenza della persona. Detto in altri termini, sebbene i greci distinguessero tra civili e barbari e i cristiani tra loro e i non-cristiani, le differenze erano ricondotte ora alle istituzioni e all’educazione, ora alla religione. Così, bastava trasmettere certi valori (i propri) o certe credenze religiose per fare dell’Altro un proprio simile.

Il primo episodio storicamente rilevante di razzismo risale alla Spagna e al Portogallo del XV secolo con la dottrina della “limpieza de sangre” (purezza di sangue), in base alla quale i cristiani convertiti dall’ebraismo e dall’Islam erano esclusi dagli uffici pubblici ed ecclesiastici a meno che non dimostrassero con un certificato di essere del tutto o parzialmente discendenti di cristiani. Tuttavia, citando l’autore, «la concezione moderna delle razze come tipologie umane di base classificate secondo le caratteristiche fisiche (prima di tutto il colore della pelle) non fu messa a punto prima del XVIII secolo». E l’origine filosofica di questo fenomeno fu esattamente l’Illuminismo.

Il primo pensatore a operare una simile classificazione fu lo svedese Carl Linneo, naturalista e inventore della nomenclatura binomiale. Accanto ad alcune specie mitiche e “mostruose” (tra gli altri, il gigante della Patagonia e il nano delle Alpi), lo schema era formato da quattro specie: europeo, amerindo, asiatico e africano. E sebbene non fosse così esplicito, riservava esclusivamente all’europeo le qualità migliori: perspicacia, creatività e tendenza a essere governato dalle leggi.

I neri, più sfortunati, erano invece “furbi, indolenti, negligenti […] governati dal capriccio”. Un altro celebre naturalista figlio del pregiudizio eurocentrico fu Johann Friedrich Blumenbach, padre dell’antropologia fisica, che nella sua opera De generis humani varietate nativa distingueva tra caucasici, etiopi, mongoli, americani e malesi e, dopo avere sostenuto che tutte le razze discendevano dai primi, affermava che I caucasici erano “i più belli e i più giusti”. Vale la pena citare anche il celebre Conte di Buffon, il quale presumeva senza troppe preoccupazioni la superiorità intellettuale degli europei rispetto agli africani.

Il razzismo non era prerogativa dei naturalisti, ma trovava spazio anche nei discorsi dei filosofi; primo fra tutti, Voltaire. Oggi ricordato per la sua difesa della tolleranza e della libertà d’espressione e per il suo disprezzo per l’autorità tradizionale e per la schiavitù, Voltaire fu anche il “primo razzista moderno a tutto tondo”: considerava la “razza negra” inferiore non solo rispetto alle altre “razze”, ma anche rispetto a scimmie, leoni ed elefanti, e sosteneva persino che avesse avuto origine da amplessi tra uomini e scimmie. Voltaire era inoltre visceralmente antisemita e attribuiva agli ebrei un insieme stabile di tratti sgradevoli, definendoli “un’orda di ladri e usurai”.

Ricordiamo un altro degli autori cardine dell’Illuminismo: Charles-Louis de Secondat, meglio noto come Montesquieu. Nella celebre opera Lo spirito delle leggi, in cui troviamo la formula politica per eccellenza della modernità (la divisione dei poteri), troviamo anche una distinzione tra popoli adatti e inadatti alla schiavitù. Sebbene la differenza sia ricondotta dall’autore al “clima”, la tesi è espressa in modo inequivocabile: «Non ci si deve stupire che la viltà dei popoli dei climi caldi li abbia resi quasi sempre schiavi e che il coraggio dei popoli dei climi freddi li abbia mantenuti liberi. È un effetto che deriva dalla sua causa naturale».

Ultimo, ma non in ordine di importanza, Immanuel Kant, colui che dell’Illuminismo ha fornito una definizione. Nel 1775, Kant fece pubblicare un saggio intitolato Sulle diverse razze dell’uomo in cui distingue quattro razze (bianchi, neri, calmucchi e indostani) le cui differenze erano ricondotte al clima e affermava: «gli indiani gialli possiedono scarsi talenti. I negri sono molto al di sotto di loro, ed al punto più basso vi si trova una parte del popolo dei nativi americani».

Potremmo continuare la nostra rassegna citando altri autori che dell’Illuminismo sono padri (Diderot) o continuatori (Saint Simon). In fin dei conti, la sostanza è la tesi di fondo di Fredrickson: «se il razzismo è nato in Occidente è perché solo in Occidente si è affermato il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini. Da ciò dipende la dialettica tra questo fatto sociale e il razzismo come giustificazione della disuguaglianza: se siamo tutti uguali, la disuguaglianza può essere giustificata solo in termini biologici».

Fu proprio l’Illuminismo, con il suo approccio naturalista, a dare un carattere “scientifico” a un razzismo fondato sul colore della pelle, preparando il terreno per il razzismo biologico dell’Ottocento di Arthur De Gobineau, Carl Vogt e Ernst Haeckel.

Ciò che emerge è dunque la natura profondamente contraddittoria di questa corrente di pensiero, al quale alcuni autori, ancora oggi, ricollegano l’avvento e l’essenza stessa della modernità politica. Tuttavia, quelle contraddizioni rimangono, e sono riconducibili a un elemento che pur essendo distinto dalla scienza non ne è del tutto estraneo: la legittimazione delle disuguaglianze, ovvero il problema politico per eccellenza. Se c’è una cosa che il Novecento ha dimostrato è che non solo le disuguaglianze non possono razionalmente fondarsi sul razzismo, ma che con le disuguaglianze, in un modo o nell’altro, occorre pur sempre fare i conti. 


 

 

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