Il museo ai tempi di Instagram

Di Virginia Monteleone – Oggi, spesso e volentieri, andare al museo significa vedere una sfilza di persone con le braccia tese e gli schermi illuminati in mano, come tanti zombie affamati che cercano l’inquadratura giusta per postare su instagram un momento di cultura che non viene vissuto come merita. Parola, o simbolo, d’ordine: (#) hashtag.

Nel XVIII secolo i musei erano fruibili solo la mattina, perché si pensava che il pubblico museale adatto, quello facoltoso dall’atteggiamento estetico, esprimesse interesse e partecipazione cosciente nelle ore mattutine, setacciando così il pubblico che sarebbe venuto per reale interesse e non per svago, come si sarebbe fatto nel pomeriggio. Ergo vietato l’ingresso ai pigroni!

Oggi il museo si è avvicinato – o si sta avvicinando sempre più – ad ogni tipo di pubblico, per coinvolgerlo nella vita del museo e nelle attività culturali. Musei per famiglie, attività per bambini, percorsi “per anziani” (in che senso?), mostre a tema dalla curatela blockbuster.

In verità il museo è un’istituzione permanente, senza fini di lucro, aperta al pubblico, al servizio della società e del suo sviluppo, come indica la definizione ufficiale ICOM. Ma oggi questo bene per il servizio pubblico crea molte similitudini con un sistema aziendale; quelli che beneficiano spesso dei “servizi extra” (tutti a pagamento) sono i grandi musei, quelli più in voga, quelli più hashtaggati insomma.

Qui si arriva al termine creato appositamente per una pratica – ormai di uso comune – che forma l’identità di una persona connessa al domani: instagram. Una graziosa vetrina dove le immagini fanno da padrone, e gli hashtag diventano la nuova forma di comunicazione rapida, raggiungibile da un vastissimo numero di utenti. Anche il museo va incontro a questa pratica che risulta spesso e volentieri assai alienante.

Citando i musei creati appositamente per il social instagram come nel caso della Color Factory di San Francisco e dell’Ice Cream Museum di Los Angeles, proponendo due mostre pop-up che stanno riscuotendo un gran successo negli ultimi mesi, invadendo i social network di scatti coloratissimi: è arte? La risposta dei curatori a questa domanda sta tutta nell’intrattenimento. Il pubblico si diverte molto. Ed eccoci molto lontani da quel museo selettivo per i soli appassionati e studiosi.

Il fruitore contemporaneo entra in un grande museo e non guarda più realmente, non osserva. La sua contemplazione avviene tramite un filtro riduttivo che è il proprio smartphone, a caccia dell’opera più famosa e conosciuta, per poter aggiungere posizione, filtro e milioni di popolarissimi hashtag per raggiungere più like, più follower. L’immagine pubblicata gira falsata, filtrata. L’utente vede una bella riproduzione, con una bella citazione. Like.

La riproducibilità tecnica, teorizzata da Walter Benjamin nel 1936, ha cambiato per sempre lo status dell’opera d’arte, trasformandola da oggetto unico e irripetibile, esperibile solo nell’hic et nunc (qui ed ora), a immagine capace di circolare per il mondo slegata dall’oggetto, oltrepassando ogni confine. Ci lascia l’amaro in bocca il duplice fine della questione: diffusione e riconoscimento. Tutto questo deve essere però letto nel modo giusto, un giusto che ha sempre un unico e nobile fine: la conoscenza.

Il confine tra foto ricordo e status sociale da imporre sui social sembra confondersi, oltrepassandosi nelle intenzioni. Siamo tutti un po’ risucchiati dalla mania del fotografare tutto e postarlo, ed è un meccanismo delicato quello che ci porta a distinguere il momento social da quello reale. Scatta la foto da pubblicare, ma pubblicala dopo! Viviamo il momento, percorriamo tutta la grandezza di ciò che stiamo osservando. Avviciniamoci a vedere i dettagli; memorizziamo quel profumo che inonda l’ambiente. Leggiamo ciò che guardiamo. Ricordiamo senza tag chi era con noi in quel momento.

Cosa ci rimane di una visita agli Uffizi dove abbiamo lottato con la folla per l’inquadratura migliore e poi, dopo il click, rivolto lo sguardo allo schermo e prima di andare via? Come se il fine ultimo fosse quello di testimoniare il fatto che si è andati in un luogo di cultura, perché la cultura va di moda, e fa bene. Ma dopo il selfie con la scultura famosa, cosa ci rimane? Foto che una volta pubblicate non guarderemo più. Immagini che vivranno solo in una dimensione astratta, raramente su carta – troppo raramente – che lentamente sbiadiscono nella nostra mente ormai disabituata a ricordare. Dopo la cultura orale e scritta arriva la nostra, la cultura dell’immagine? Dell’hashtag?

Ma d’altronde anche mettere hashtag – per raggiungere grossi numeri di follower – è diventato un lavoro, riconosciuto al pari del giornalista. In proposito, mi viene in mente la Fondazione Prada a Milano, dove è in corso la mostra curata da Germano Celant Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943; e sul sito si legge testualmente:

«Ai visitatori non è consentito scattare fotografie o realizzare video all’interno degli spazi occupati dalla mostra “Post Zang Tumb Tuuum”, a causa delle particolari condizioni di allestimento e del valore storico e della fragilità delle opere esposte. Ai professionisti (giornalisti, fotografi, blogger e influencer) interessati a realizzare fotografie e video della mostra è richiesta la compilazione di una liberatoria, disponibile alla biglietteria, previa verifica da parte del personale di biglietteria delle pubblicazioni online e offline per le quali lavorano. Tutti i professionisti che hanno sottoscritto la liberatoria dovranno ricevere un pass stampa che li renda chiaramente riconoscibili al personale di sala durante la loro visita.»

Dunque nel caso in cui l’influencer famoso abbia necessità di pubblicare interazioni con la mostra  su instagram, compilando un foglio si ovvierebbe alle particolari condizioni di allestimento e valore storico. Una buona pubblicità e un gran potere di diffusione scavalcano con zelo ogni buon proposito e la missione stessa dell’istituzione che principalmente è quella di conservare e salvaguardare ai posteri il patrimonio culturale.

L’arte contemporanea volge lo sguardo al suo pubblico creando sempre più opere interattive, da vivere, da provare, da manipolare soprattutto da fotografare. Il confine tra momento culturale e didattico è spesso intrecciato ad un aspetto troppo ludico e quasi banale, che ridicolizza e attenua la serietà delle tematiche trattate dagli artisti.

E così ci ritroviamo a fare diversi metri di scivolo dentro palazzo Strozzi a Firenze, facendo una diretta facebook o una storia su instagram, senza capire che siamo esperimenti, cavie umane dell’artista Carsten Höller in collaborazione con il neurobiologo Stefano Mancuso per The Florence Experiment.

Cosa avranno i nostri posteri? Forse un repost di immagini sparse. Memorie piene di esperienze di altrui da guardare, musei totalmente virtuali visitabili seduti sul divano di casa. Loro sapranno davvero cosa si intenderà per contemplazione? Il futuro distopico immaginato dalla serie tv Black Mirror sembra essere sempre più a un passo dal nostro presente. Un hashtag dopo l’altro, filtro dopo filtro, verso la distruzione dell’esperienza reale.


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