Le tragedie dei migranti a Cutro e in Libia. Le responsabilità dell’Europa
Oltre 100 migranti sono morti alle porte di un’Europa che non vedranno mai. Evidenti le contraddizioni sui soccorsi in mare.
A seguito del naufragio del 12 marzo in acque libiche, sono più di 100 le persone morte in mare vicino alle porte dell’Europa nel corso degli ultimi quindici giorni, tra cui 30 disperse.
Secondo Mediterranea Saving Human, data l’impossibilità d’intervento da parte delle autorità libiche, l’Italia aveva assunto il coordinamento Sar e dato istruzioni di intervento a tre navi mercantili che invece si sono limitate a osservare per 24 ore.
Alarm Phone accusa l’Italia di aver consapevolmente ritardato i soccorsi condannando i migranti a morte certa: «Le autorità italiane stavano cercando di evitare che le persone fossero portate in Italia, ritardando l’intervento in modo che la cosiddetta guardia costiera libica arrivasse e riportasse con la forza le persone in Libia, nelle condizioni di tortura da cui avevano cercato di fuggire».
Ma dalla “fortezza Europa” si precisa che: «le operazioni di ricerca e soccorso nelle acque territoriali libiche sono autorizzate solo per le imbarcazioni libiche», ha dichiarato il portavoce del Servizio Europeo per l’azione esterna (Seae), Peter Stano.
La tragedia dei migranti a Cutro
Sono passate solo due settimane dalla tragedia di Cutro in Calabria quando le onde inghiottirono oltre 70 migranti tra cui decine di donne e bambini. La costante in entrambe le vicende è sempre il rimpallo di responsabilità, responsabilità sulle quali i PM stanno indagando.
Le dinamiche del naufragio di Cutro, infatti, non sono per niente chiare e prima di ricostruirle è bene precisare che la normativa sul soccorso in mare prevede che, in situazione di pericolo, valgono i principi precauzionali che danno priorità alla tutela della vita umana. Lo stabilisce il piano Sar marittimo nazionale: «Quando si presume che sussista una reale situazione di pericolo per le persone, si deve adottare un criterio non restrittivo, nel senso che una notizia con un minimo di attendibilità deve essere considerata veritiera a tutti gli effetti», si legge al punto 310.
Tuttavia il portavoce della Guardia Costiera Nicastro ha dichiarato: «Gli elementi di cui eravamo in possesso noi e i colleghi della guardia di finanza non facevano presupporre che vi fosse una situazione di pericolo per gli occupanti».
Ricostruiamo la vicenda:
Il 21 Febbraio il caicco parte alle tre del mattino dal distretto di Cesme (Smirne) in Turchia.
Il 25 Febbraio alle ore 5:57 (23 ore prima del naufragio) dalla barca proviene una richiesta di aiuto: ciò è dimostrato da un messaggio arrivato alla Guardia costiera di Roma.
Alle ore 18, sempre di sabato 25 febbraio, il bollettino Meteomar segnala “burrasca in corso” nel mar Ionio settentrionale e “burrasca prevista” con mare forza 7.
Alle 22.30 un velivolo Frontex intercetta la barca a 40 miglia al largo della costa calabrese e rileva a bordo, grazie a strumenti termici, la presenza di molte persone. E già questo sarebbe bastato per avviare i soccorsi dato che una grande quantità di persone si trovava in mezzo al mare quasi in burrasca.
Gli operatori Frontex mandano allora una segnalazione all’ICC, l’International Coordination Centre, cioè le autorità che si occupa della cosiddetta law enforcement di cui fa parte anche la Guardia di Finanza. Per conoscenza Frontex gira la segnalazione anche alla Centrale operativa della Guardia costiera di Roma.
Tuttavia, secondo la ricostruzione della Guardia Costiera, la segnalazione parlava di «unità che naviga regolarmente, a 6 nodi e in buone condizioni di galleggiabilità» senza far riferimento al pericolo. Non viene allora attivato il Sar, il soccorso in mare che avrebbe fatto partire la Guardia costiera con motovedette specializzate proprio nel recupero di persone in difficoltà e incapaci di affrontare un mare forza 7-8.
La Guardia costiera quindi non interviene e la Guardia di Finanza riferisce di aver mandato i suoi mezzi. Tuttavia le pericolose condizioni del mare (che però non fanno attivare il Sar) hanno reso impossibile per la Guardia di Finanza raggiungere l’imbarcazione. Il pattugliatore e la vedetta tornano indietro attivando «il dispositivo di ricerca a terra, lungo le direttrici di probabile sbarco».
Il 26 febbraio, alle quattro del mattino (6 ore dopo la segnalazione di Frontex) dei pescatori sentono un rumore di schianto: l’imbarcazione si disintegra e muoiono 72 persone. A quel punto la Guardia Costiera dispone il Sar ma era troppo tardi.
In sintesi, le contraddizioni delle operazioni di soccorso sono evidentissime: la guardia di Finanza si è arrestata per il mare forza 7, ma la Guardia costiera non ha attivato il Sar e ciò sulla base del semplice messaggio di Frontex che riferisce “la buona galleggiabilità” dell’imbarcazione. Tutto ciò senza considerare minimamente il bollettino meteo che già dalle 18 aveva previsto una burrasca nella notte e la presenza di una grande quantità di persone nell’imbarcazione. La parola ora va rimessa alla Magistratura.
Lo stato attuale
Ma ciò che fa davvero riflettere sulla direzione di questo Paese e dell’Europa in relazione ai diritti umani è il trattamento dei superstiti, ospitati in una struttura di accoglienza a Capo Rizzuto. La struttura è fatiscente, dotata di un solo bagno, una sola doccia senza tenda, senza riscaldamento e senza letti. Le persone sono state costrette a dormire a terra, senza coperte e senza lenzuola.
A denunciare questa condizione disumana, che ora sembrerebbe in parte risolta, è stata Alessandra Sciurba docente di Deontologia, sociologia e critica del diritto all’Università di Palermo.
«È difficile rispondere – scrive su Facebook – mentre chiedono come poter superare le rigidità insensate delle leggi europee che gli vietano di seguire le salme dei loro cari nei casi in cui queste verranno portate in altri paesi Ue dove si trovano familiari partiti prima di loro. Non dormite sogni tranquilli pensando che almeno ai sopravvissuti sia riservata una solidarietà vera, fatta di rispetto e diritti. Oltre alla verità e alla giustizia sulla morte delle loro famiglie, è loro negata adesso, in terra italiana, anche la dignità delle vittime».
In conclusione, tante sono le domande da porsi davanti ad eventi drammatici come questo. Una, forse, prova a riassumerle tutte: quando smetteremo di dare priorità alle operazioni di Polizia nei mari e daremo valore alla vita umana?
Immagine in copertina di Sandor Csudai / Behance Creative Commons