“La Grande Guerra dei siciliani”, narrazioni storiche dal basso

Con “La grande guerra dei siciliani. Lettere, diari, memorie”, Claudio Staiti racconta la prima guerra mondiale da una prospettiva inedita, attraverso la scrittura popolare dei siciliani che hanno vissuto il conflitto in prima persona.


Se è vero che sono gli uomini a fare la storia, è altrettanto vero che quando si scrive la storia di eventi o processi che segnano la vita di intere società l’enfasi è posta tradizionalmente sulla grande dimensione e sui soggetti collettivi: decenni e secoli, nazioni e imperi. 

Di modi per scrivere la storia, tuttavia, ne esistono tanti. La grande guerra dei siciliani. Lettere, diari, memorie, scritto da Claudio Staiti ed edito da Pacini, racconta la prima guerra mondiale – evento politico per eccellenza – da una prospettiva differente: quella della gente comune che ha combattuto e vissuto la Grande Guerra in prima persona.

Entrando più nello specifico, lo sguardo è rivolto alla Sicilia, con l’obiettivo sia di far emergere e di criticare tutta una serie di luoghi comuni della storiografia tradizionale sul ruolo della regione nella Grande Guerra sia di gettare una luce inedita su fonti e materiali finora trascurati, rispetto ai quali mancava un’opera di raccolta e analisi sistematica, anche per via dell’assenza nell’Italia meridionale di un archivio o di un’istituzione pubblica dedicata a questo lavoro di costruzione di una memoria locale e dal basso. Parliamo per l’appunto di lettere, diari e memorie di persone che hanno combattuto sul fronte ma non solo.

Tracce di storia e di storie non raccontate, che permettono di comprendere pienamente il contesto storico in cui la guerra si è svolta. Il contesto è quello di uno degli eventi che, come sottolinea Claudio Staiti, ha contribuito alla costruzione della nazione, all’interno di una duplice dialettica sociale e spaziale: quella tra bloody nationalization e nazionalizzazione della domanda politica da un lato, quella tra fronte militare e fronte interno dall’altro.

La guerra si impone infatti, come sempre, per ragioni e interessi nazionali, che dall’alto degli apparati di Stato arrivano nelle vite di tutti i ceti e le classi che compongono la società italiana del tempo e producono soggettività e dialettiche nuove, su scala nazionale: prima fra tutte, quella tra interventisti e neutralisti, di cui l’autore restituisce in modo dettagliato lo sviluppo in tutta la Sicilia, città dopo città, tra invettive giornalistiche e scontri di piazza. 

Tensioni che attraversano il corpo sociale in modo trasversale, sgretolando le fedeltà politiche tradizionali e introducendo alleanze inedite tra soggetti che fino a un momento prima dell’entrata dell’Italia in guerra erano schierati dalla parte opposta della barricata.

Gli interessi della nazione, dentro e oltre i suoi confini, costituiscono la ragione ufficiale dell’impegno dell’Italia: è lo stesso Vittorio Emanuele III, il 24 maggio 1915, a chiedere ai soldati italiani di “piantare il Tricolore d’Italia sui termini sacri che natura pose a confine della Patria nostra”, ovvero sulle terre italofone a quel tempo possedute dall’impero austro-ungarico (Venezia Giulia, Venezia Tridentina, Dalmazia).

Allo stesso tempo, la crisi economica che colpisce il Paese (e in particolar modo la Sicilia) mano a mano che la guerra va avanti è anch’essa un fenomeno nazionale, tanto quanto le varie forme di protesta, sia sul fronte militare che su quello interno.

A tal proposito, Claudio Staiti decostruisce gli stereotipi e i luoghi comuni diffusi sui siciliani e sul loro atteggiamento durante la guerra. Mentre infatti negli ambienti governativi e tra i vertici militari la Sicilia era raffigurata come un “covo pericoloso di renitenti e disertori”, i numeri riportati in un rapporto della Legione Territoriale dei Carabinieri di Palermo e citati dall’autore offrono un quadro ben diverso: la stragrande maggioranza dei siciliani conteggiati tra latitanti, renitenti e disertori erano infatti emigrati all’estero (ben 67.705 su 72.358) e il mancato rientro era dovuto sia alla scarsa conoscenza delle disposizioni relative alla chiamata alle armi sia alle difficoltà logistiche connesse allo spostamento. 

Accanto a questa circostanza, nel libro vengono raccontati altri fatti noti e meno noti: tra i primi, il numero dei caduti siciliani, ben 44.544 (l’8,42% dei caduti italiani), tra i secondi l’esperienza dei profughi di guerra in Sicilia (23.129 sui 600 mila sparsi su tutto il territorio nazionale) e quella dei prigionieri di guerra. Non tutti infatti sanno che la Sicilia fu tra le regioni italiane che ebbe più campi di prigionia – circa venti in tutta l’isola – che ospitarono in particolare prigionieri tedeschi, ungheresi e bosniaci. Esperienze di vita, che nel libro vengono raccontate attraverso le testimonianze dirette di alcune di queste persone.

Lo sguardo dell’autore si concentra comunque sulle testimonianze dei siciliani che hanno vissuto la guerra: lettere, diari e memorie. A ciascuna di queste forme di scrittura è dedicata una sezione; ciò riflette non solo la scelta metodologica del saggio ma anche il contenuto degli scritti. È infatti difficile operare una dicotomia netta tra la scrittura degli ufficiali e quella dei soldati: al netto delle innegabili differenze culturali e di status sociale, ciò che emerge è la condivisione delle stesse preoccupazioni e delle stesse aspirazioni. La dicotomia reale è piuttosto quella tra l’indicibile e il dicibile, ovvero in fondo tra la violenza della guerra e la razionalità della parola.

grande guerra soldati

Nelle lettere, ad esempio, è possibile rintracciare alcuni tratti comuni: la presenza di schemi e strutture ricorrenti (il cui utilizzo è promosso dagli stessi apparati militari per facilitare la scrittura), i problemi della vita quotidiana sul fronte, le emozioni condivise da soldati e ufficiali (prima fra tutte, la nostalgia di casa). Tuttavia, quando attraverso le lettere si provava a raccontare l’orrore del conflitto e le sue conseguenze, entrava prontamente in gioco la censura da parte del tribunale militare. In una lettera alla zia fermata dalla censura, Giuseppe Cavalieri, il 21 marzo 1916, scriveva: 

«ormai siamo stanchi, non ne possiamo più ci mandano al macello della carne umana a farci massacrare senza pietà, senza vedere se si può avanzare o pure no, certe volte andiamo fin sotto le sue trincee senza concludere niente, con un fuoco infernale, e ci fanno ripiegare subito, lasciando sparsi di qua e di là tanti compagni, lasciando tanti padri di famiglia. Eh! Cara zia e difficile scamparmela, devessere altro che miracolo rimanere salvo, se non è oggi è domani che resto sparso in mezzo ai miei compagni, abbandonato per sempre».

Ben diverso è invece il caso delle lettere di Giovanni Presti – ufficiale originario di Aidone (oggi in provincia di Enna), quarto di cinque fratelli – destinate all’innamorata, Maria Dal Molin, originaria di Thiene (Vicenza). Nel suo epistolario, sebbene talvolta la guerra sia descritta con toni crudi, non emerge disfattismo, anche e soprattutto perché la testimonianza del conflitto è mediata dall’amore, che diventa il principale motivo di adesione alla battaglia:

«Io desidero che non la storia parli di me – perché niente di grandioso io sto facendo; se di tutti coloro che compiono coscienziosamente il proprio dovere la storia dovesse parlare, allora tutta la storia non sarebbe che un infinito calendario umano. Voglio che tu sola parli di me. Mi basta. Cos’è la Storia? Un cumulo di menzogne sanzionate da un congresso di uomini che la società chiama dotti. La Storia insomma è una parola. Tu invece sei un essere reale e se parli di me il vento mi trasporta le parole che mi carezzano».

Infine, dalle lettere di altri soldati emergono altre storie in cui l’opposizione tra dicibile e indicibile emerge con forza. La prima è quella di Vincenzo d’Aquila, nato a Palermo nel 1892 e costretto, come tanti suoi conterranei, a migrare con la sua famiglia negli Stati Uniti. Anche dopo essere diventato cittadino americano nel 1914, il suo rapporto con il paese d’origine sopravvive, grazie soprattutto al legame con la comunità di emigranti italiani a New York e alla stampa italoamericana. 

Sono proprio le notizie diffuse sui giornali, intrise di una propaganda in cui è ancora forte il mito patriottico del Risorgimento, a spingere il giovane Vincenzo ad arruolarsi come volontario nell’esercito subito dopo lo scoppio della guerra nel 1915. 

Tuttavia, una volta sbarcato a Napoli a luglio, le immagini trionfalistiche evocate dalla propaganda si scontrano subito con la cruda realtà della guerra. Sarà proprio nella Valle dell’Isonzo che, di fronte allo spettacolo atroce e alla violenza inumana del conflitto armato, Vincenzo d’Aquila fa la sua “chimerica promessa” a Dio: da quel momento in poi, non avrebbe sparato neanche un colpo per tutta la durata della guerra.

Dopo pochi mesi passati a lavorare come dattilografo in trincea, si ammala di tifo. Sopravvissuto, si sveglia in un ospedale a Udine e successivamente viene spedito in manicomio, poiché ritenuto “pericoloso per sé e per gli altri”. 

Una sorte simile a quella toccata non solo a molti altri pacifisti e antimilitaristi del tempo – in alternativa all’esilio – ma anche ad altri soldati, come Antonino C.: sopravvissuto a un attacco delle forze nemiche il 17 settembre 1915 – in cui il fuoco austriaco lascia vivi soltanto 48 uomini della sua compagnia e 275 del suo battaglione – viene trasferito all’ospedale psichiatrico San Niccolò di Siena poiché vittima di un misterioso mutismo.

Tuttavia, sebbene non parli, riesce a scrivere; ed è attraverso la scrittura che testimonia la sua storia. Non a caso, al netto della diagnosi di mutismo isterico da parte degli psichiatri del tempo, la mancata compromissione delle facoltà linguistiche suggerisce un’ipotesi: il mutismo, come riconosce lo stesso autore del saggio, potrebbe essere interpretato come una reazione etica all’orrore della guerra. 

La dialettica tra l’orrore della guerra e la parola è rintracciabile anche nei diari e nelle memorie, dove al netto di alcune differenze sostanziali a livello di stile e di contenuto – in particolare la mancanza dell’intento divulgativo nei diari, presente invece nelle memorie scritte molti anni dopo la fine della guerra – la parola è alternativamente ridotta a celebrare il conflitto con toni bellicisti oppure è uno strumento atto a riflettere una distanza dalla guerra che non è solo temporale ma anche e soprattutto esistenziale. Tra gli scritti più interessanti, vale la pena citarne due: le memorie di Vincenzo Rabito e il diario di Luigi Marziano. 

Vincenzo Rabito, nato nel 1899 da una famiglia povera a Chiaramonte Gulfi (Ragusa), è sicuramente il più conosciuto tra i due: il suo memoriale di 1027 pagine, scritto a cavallo tra gli anni sessanta e gli anni settanta, è diventato un vero e proprio caso letterario dopo la sua pubblicazione nel 2007, a pochi anni di distanza dal suo ritrovamento da parte del figlio. Un’opera unica, sia per lo stile utilizzato sia per l’arco di tempo che ricopre: una vera e propria storia del Novecento scritta in prima persona, con un linguaggio che non è né italiano né dialetto (l’autore, infatti, era analfabeta). 

A titolo esemplificativo, basti citare questo passaggio in cui Rabito racconta l’emozione provata dopo avere ottenuto il congedo alla fine della guerra:

«Io con quello concedo che aveva pare ca mi avevino dato un tresoro e quinte aballava solo per la contentezza […] Così arrevammo a Catania, così scentiamo e per tutta la notte ciranto Catania. Io a Catania ci aveva stato a lavorare da picolo e tutte li casine li sapeva. […] Quinte abbiamo provato una crante sodisfazione che essere con il cogedo segnifecava 

essere borchese, segnifecava essere libre e nessuno che ci diceva “Reterateve!. Aveva 5 anne che tutte ci comantavino, ora erimo borchese, cantammo per le strate come 2 che avemmo uscite della galera. [….] E finarmente fuommo alla Madonna di Qulfe, che ci abiammo messo in genocchio per farece una prichiera che si aveva dato la crazia di retornare con una querra così spaventusa».

Del diario di Luigi Marziano, giovane tenente originario di Sinagra (Messina), vale la pena citare invece le parole con cui, dopo la fine del conflitto, riflette sul futuro di un’intera generazione di sopravvisuti:

«Che ne sarà di noi? Ci hanno insegnato a fare la guerra, ci hanno fatto vivere sacrifici e sofferenze inaudite e ora ci rimandano a casa come se nulla fosse accaduto, ma dentro di noi è morto qualcosa, irrimediabilmente. Siamo entrati in guerra che eravamo dei ragazzi, ora che essa è finita ci sentiamo vecchi, terribilmente vecchi come se fosse passato un secolo».

Se a distanza di più un secolo l’eco di queste precise parole resiste è grazie al lavoro di storici come Claudio Staiti, impegnato nella ricostruzione di una memoria dal basso, lontana dai toni trionfalistici e dal desiderio di monumentalizzare una delle più grandi tragedie della storia del mondo. Un mondo in cui oggi il pericolo di un nuovo conflitto globale si riflette – non a caso – nell’impossibilità di raccontare l’orrore della guerra o peggio nella tendenza a svuotare le parole del loro contenuto di razionalità, facendone un puro strumento al servizio della violenza nazionalista.