Crisi climatica, quanto e come l’uomo può cambiare il corso della storia?

Accendendo la televisione non si può fare a meno di sentire discutere quotidianamente di due temi: il conflitto ucraino-russo e la crisi energetica. Sullo sfondo di entrambi gli argomenti c’è senza dubbio la crisi climatica che si consuma sul nostro Pianeta da un secolo a questa parte. 


Le diverse rivoluzioni industriali e la scoperta di materie prime e risorse energetiche hanno spinto il Pianeta, come lo abbiamo sempre conosciuto, verso un punto di non ritorno. La cartina tornasole di questo disastro è senz’altro lo stato di salute dei nostri mari e in particolare dei nostri ghiacciai, Artico e Antartico. 

Per quanto riguarda l’Artico, la crisi diplomatica dovuta alla guerra in Ucraina comporta l’allontanamento di tutti gli studiosi russi da tutti i meeting e da tutti gli studi sul campo. I risultati degli studiosi russi sono un’importante risorsa in quanto, monitorando più del 50 per cento delle coste che sono bagnate dal Mare Artico, riescono a portare dei risultati molto approfonditi sui tavoli di lavoro. La mancanza dei risultati degli studi russi rischia di creare un buco nelle procedure di prevenzione e controllo del territorio marino e di monitoraggio di fauna e flora. 

Al Polo Sud la situazione risulta essere largamente sotto controllo e gli studi mostrano da 50 anni a questa parte come da un lato si stiano riducendo i ghiacciai terrestri, per via dell’innalzamento delle temperature e dell’effetto serra che alimentano processi di scioglimento del ghiaccio superficiale, e meccanismi che comportano l’innalzamento della temperatura globale del ghiacciaio. Da un lato però si nota un aumento dei ghiacciai marini, che come fa notare Viola Rita in un interessante spaccato su Repubblica, non deve destare meraviglia rispetto al contesto climatico critico. 

(foto European Wilderness Society)

Nel 2015, i Paesi membri dell’ONU hanno sottoscritto l’agenda 2030, ossia un catalogo di impegni in ambito di sviluppo energetico e di sostenibilità da perseguire entro il 2030: la maggior parte degli Stati risulta ad oggi enormemente in ritardo rispetto alla tabella di marcia. 

Consumare, consumare, inquinare

La ricerca affannosa che sta perseguendo l’essere umano in questo momento è finalizzata sì alla salvaguardia del Pianeta, ma si tratta principalmente di una ricerca mossa da un bisogno egoista, la sopravvivenza. La natura, incredibilmente affascinante e democratica, sopravvivrà, si adatterà a ogni contesto, così come succede da milioni di anni. L’uomo, invece, non potrà continuare la sua vita in condizioni climatiche estreme. Ma siamo nell’era del consumismo, l’uomo è diventato un consumatore seriale, ha bisogno di spremere fino all’osso ogni risorsa che gli si pone davanti, senza parsimonia. 

Un punto di vista interessante è quello di J. B. MacKinnon che cambia obiettivo, come si fa in una macchina fotografica, e inquadra la realtà da un altro punto di vista. I governi attuali, tra i primi quello italiano, in conseguenza al conflitto di questi mesi in est Europa, stanno cercando in tutti i modi delle alternative energetiche per mantenere la produzione e gli spostamenti. Insomma, fare in modo che si possa produrre in maniera “green”, con un impatto minimo sull’ambiente. Quello che sostiene MacKinnon è che questo non cambierebbe l’ordine delle cose, in quanto, il vero problema dell’uomo è la ricerca costante di un accumulo di profitto da poter spendere in beni di consumo pressoché inutili. 

Effettivamente, la prima preoccupazione di ogni governo in seguito a una crisi (economica, sanitaria, militare) è quella di non far abbassare o far riprendere i consumi. Iniziate come il Black Friday, le costanti offerte dei centri commerciali e supermercati, non fanno altro che invogliare il cittadino ad acquistare cose che non gli servono, a vivere al di sopra delle proprie possibilità. 

Nel suo libro “Il giorno in cui il mondo smette di comprare” (Il Saggiatore, 2021) MacKinnon riporta l’esempio di alcune comunità africane che vivono allo stato di cacciatore-raccoglitore. La sua analisi mostra una qualità di vita nettamente migliore rispetto a quella del cittadino medio occidentale, oltre a sottolineare un impatto quasi nullo nei confronti dell’ambiente. Certo, anche l’uomo che vive nel deserto è un consumatore, ma usa le risorse intorno a sé per un bisogno effettivo, vive, come dice l’autore, al di sotto delle proprie possibilità. 

Lo stile di vita di consumo ha un impatto fortissimo nei confronti dell’ambiente e ne abbiamo avuto prova due anni fa, durante il lockdown, quando tutte le più grandi potenze economiche e industriali del mondo si sono fermate, quando i consumi sono scesi sotto i minimi storici. Sono negli occhi di tutti ancora le cartine che rimbalzavano in tutti i telegiornali e che mostravano i livelli di smog più bassi nei cieli della Cina, dell’India, dell’America, i canali limpidi di Venezia, i delfini sotto costa a Genova, il cielo più limpido a Londra. 

Ma è durato poco: in breve tempo la ripresa industriale è tornata ai tempi pre pandemia, i consumi sono aumentati, la gente ha ripreso a circolare. E il clima a soffrire più di prima.

Non si tratta solo di “rinnovabile”

È ipocrita pensare che utilizzando risorse rinnovabili potremo cambiare il nostro impatto nei confronti del clima e della natura. Se continueremo a usare l’energia per far muovere industrie che producono beni di consumo che diventeranno rifiuti e che saranno quindi inquinanti, tutti gli sforzi fatti dagli studiosi nei poli, dai biologi marini e da geologi e speleologi, saranno inutili.

Siamo sempre in ritardo rispetto alla natura, lo siamo nel contrasto alle malattie, lo siamo nella lotta alla crisi climatica. E i ghiacciai sono da monitorare, da salvaguardare, altrimenti dovremo seriamente riconsiderare il modo in cui viviamo e vediamo la Terra. 

Non abbiamo vie di fuga, siamo davanti a un bivio: cambiare il nostro stile di vita o accettare di vivere un Pianeta completamente diverso da come lo stiamo vedendo oggi. Questa seconda strada è la più terribile perché dovremmo dire addio alle tribù indigene che sono un bagaglio della cultura mondiale, dovremmo dire addio ad alcune specie animali, alle foreste, immaginare più deserti, più eventi climatici al limite. Una visione apocalittica ma, come la storia ci insegna, la natura troverà la sua strada: noi saremo in grado di adattarci?


Foto in copertina Diego Delso