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Corte d’Appello di Roma, illegittimo il Decreto Salvini

Sul Decreto Salvini, la Corte d’Appello di Roma ha ordinato al Ministero dell’Interno di indicare la qualifica neutra del genitore nella carta di identità del figlio minore.


Con propria sentenza del 15 febbraio scorso, la Corte d’Appello di Roma ha confermato il ragionamento logico-giuridico sostenuto dal Tribunale in primo grado, rilevando la sussistenza di eventuali profili di incostituzionalità del Decreto ministeriale 31 gennaio 2019 (Decreto Salvini) in materia di modalità tecniche di emissione della carta d’identità elettronica. Nel dettaglio, si tratta di un provvedimento giurisdizionale che aggiunge un ulteriore tassello al più ampio dibattito concernente i diritti dei figli di coppie omogenitoriali, ossia con due padri o due madri.

Per meglio comprendere la portata della sentenza sopra richiamata, è opportuno effettuare un excursus storico dei principali eventi che ne hanno determinato l’emissione. In primo luogo, va segnalato l’intervento del Decreto Salvini del 2019, che ha apportato modifiche al precedente Decreto ministeriale 23 dicembre 2015, recante modalità tecniche di emissione della carta d’identità elettronica, prevedendo nella sostanza la sostituzione della dicitura “genitori” con gli specifici riferimenti di genere relativi al “padre” e alla “madre”.

In secondo luogo, sotto il profilo fattuale, la vicenda oggetto della sentenza riguarda una minorenne e la rispettiva coppia di madri, la prima biologica e la seconda adottiva. A nome della figlia, le stesse avevano chiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una Carta d’Identità Elettronica (C.I.E.) valida per l’espatrio, richiedendo specificatamente nel documento l’indicazione della dicitura “madre” per entrambe o, in alternativa, un riferimento neutro sotto il profilo del genere, quale “genitore”.

La richiesta, tuttavia, veniva rigettata, sulla scorta di una duplice motivazione. Da un lato, gli addetti degli uffici preposti non erano in grado di modificare le specifiche tecniche del sistema di programmazione che consentiva l’emissione della C.I.E.; dall’altro, il cambio di dicitura era in contrasto con quanto previsto dal Decreto Salvini e, pertanto, non poteva essere accolto.

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Muovendo dai fatti sopra esposti, si instaurava il giudizio dinanzi alle autorità giudiziarie competenti, che ha condotto alla sentenza della Corte d’Appello di Roma, che ha confermato – come sopra precisato – quanto sostenuto dal Tribunale ordinario in primo grado. A tal riguardo, è opportuno sottolineare i punti salienti su cui si fonda il provvedimento emesso da quest’ultimo, al fine di comprendere le ragioni giuridiche che hanno portato all’accoglimento della domanda formulata dalle madri della minorenne.

In tale prospettiva, la pronuncia del Tribunale di Roma offre numerosi spunti di riflessione sulla tutela che viene garantita, nel nostro sistema giuridico, ai diritti fondamentali. In primo luogo, va specificato che il giudice è stato chiamato ad esprimersi sull’esistenza, in capo alle madri riconosciute giuridicamente genitrici della minorenne, del diritto a vedersi identificate – nella C.I.E. della figlia – secondo la rispettiva identità sessuale; contemporaneamente, il Tribunale è stato adito, ai fini del riconoscimento del diritto della minore ad un’esatta rappresentazione della propria vita familiare. 

Con riguardo ai profili sopra identificati, il giudice ha ritenuto il Decreto Salvini in contrasto con diverse disposizioni facenti parte non solo della Costituzione italiana, ma anche dell’ordinamento giuridico comunitario, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e di altri strumenti di tutela internazionali, tra cui Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989. 

In particolare, con riferimento alla Carta fondamentale, il Tribunale ha espressamente menzionato gli artt. 29, 30 e 31, argomentando che, nella loro formulazione, gli stessi sono presenti termini quali “genitori” e “coniugi”, non già le espressioni “madre” e “padre”. E sebbene le norme medesime facciano riferimento alla maternità e alla paternità, queste sono subordinate a scopi ben definiti, quali rispettivamente la funzione biologica della gestazione e la relativa ricerca. Tanto bastava, a parere del giudice di merito, a rilevare profili di incostituzionalità con riferimento al Decreto Salvini, tenuto conto anche della potenziale violazione dell’art. 2 della Costituzione, nella parte in cui garantisce il rispetto della dignità personale.

In realtà, a scanso di ogni equivoco, il Tribunale ha sostenuto l’illegittimità dell’atto amministrativo in questione anche in relazione alla CEDU, in particolare all’art. 8 che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, al pari dell’art. 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Nel dettaglio, secondo l’interpretazione del giudice, l’indicazione di una delle madri nella C.I.E. della figlia non conforme alla sua identità di genere costituisce una violazione della disposizione sopra richiamata, poiché si concretizza in un’ingerenza priva di giustificazioni nell’esercizio del suo diritto. 

Nell’argomentare quanto precede, il Tribunale ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sulla scorta della quale “la sfera personale, protetta dall’art. 8, include i dettagli della propria identità come individuo. […] E tra questi dettagli non può non ricomprendersi anche l’indicazione del ruolo sociale e familiare, che deve essere compatibile con l’identità sessuale e di genere della persona”. E le medesime considerazioni possono essere formulate – a parere del giudice del merito – anche nei confronti della figlia minore, se si considera che l’identità familiare è parte integrante e fondamentale dell’identità dell’individuo.

Per quanto riguarda il contrasto tra il Decreto Salvini e la normativa dell’Unione Europea (UE), il Tribunale di Roma ha riscontrato la potenziale violazione dell’art. 21 del TFUE, che garantisce la libertà dei cittadini dell’UE di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri; libertà, questa, che “il cittadino dell’Unione minore di età deve poter esercitare accompagnato da ciascuna delle sue due madri”.

Nel richiamare tale disposizione, il giudice ha fatto espresso riferimento all’ipotesi in cui, all’uscita dall’Italia o all’ingresso nel territorio di un altro Stato, il pubblico ufficiale addetto ai controlli possa rinvenire una mancanza di conformità tra le dichiarazioni di una delle madri e quanto dichiarato nella C.I.E., con conseguenti rischi in caso di fondate perplessità di quest’ultimo. 

Da ultimo, l’indicazione di un dato non corrispondente alla realtà integrerebbe, secondo il Tribunale, gli estremi per i reati previsti dagli artt. 479 e 480 del codice penale, ossia falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati o in autorizzazioni amministrative. In particolare, la C.I.E. costituisce un documento con valore certificato e, per ciò stesso, deputato a provare l’identità personale del titolare. Di conseguenza, se si considera che la stessa deve rispecchiare in modo esatto quanto risulta dagli atti dello stato civile di cui certifica il contenuto, ben si comprende come la difformità nell’indicare una delle madri con la qualifica di “padre” potrebbe profilare degli elementi sanzionabili in sede penale.

Dalla disamina appena effettuata, appare evidente la rilevanza della sentenza del Tribunale di Roma, confermata in sede di appello. L’interpretazione fornita alla normativa in questione nel procedimento che ha coinvolto le due madri apre lo spiraglio ad una lettura dell’ordinamento giuridico italiano più incline e conforme alle nuove realtà sociali che tentano con difficoltà di trovare spazio nella realtà moderna. In tale prospettiva, il compito degli organi giurisdizionali risulta di fondamentale importanza per prevenire le eventuali discrasie tra ciò che il diritto garantisce e quello che la politica persegue.

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