Anche i Tibetani vittime della guerra cinese alla diversità culturale

 

Continua la distruzione sistematica della cultura tibetana in Cina, dove centinaia di migliaia di persone vengono rinchiuse in campi di internamento.


Si accendono nuovamente i riflettori sui campi di internamento in Cina (Laogai). Mesi fa abbiamo parlato dell’inquietante caso degli Uiguri; oggi la cultura a rischio è quella tibetana. Parliamo di cultura perché, al netto della difficoltà di conoscere i metodi di insegnamento utilizzati all’interno di questi campi di rieducazione, l’unica cosa che non viene tenuta nascosta dal governo cinese è il loro obiettivo: «eliminare le persone pigre», dove pigro è chiunque non contribuisca direttamente alla crescita del PIL cinese. 

Secondo uno studio pubblicato dalla Jamestown Foundation, infatti, la popolazione tibetana dovrà trasformarsi da statica a proattiva, e questo processo richiede una diluizione dell’influenza negativa derivante dalla cultura e dalla religione buddista. Per arrivare all’obiettivo, è stato attuato un metodo che incoraggia la popolazione tibetana a lasciare le proprie terre per unirsi a cooperative gestite dal governo.

Nel marzo 2019, l’amministrazione tibetana ha emanato il Piano d’azione 2019-2020 per la formazione degli agricoltori e dei pastori e il trasferimento del lavoro, che impone la «vigorosa promozione della formazione militare professionale», adottando il modello pionieristico di Chamdo e imponendolo a tutta la regione. 

Il processo di formazione professionale deve includere «la disciplina del lavoro, la lingua cinese e l’etica del lavoro», con l’obiettivo di «migliorare il senso della disciplina dei lavoratori per conformarsi alle leggi e ai regolamenti nazionali e alle norme e ai regolamenti delle unità di lavoro».

Nei primi sette mesi del 2020, più di mezzo milione di contadini e pastori tibetani sono stati costretti a entrare a far parte di questo programma di rieducazione. Circa cinquantamila di queste persone sono state già trasferite dai campi di addestramento a lavorare in vari progetti in Tibet, tremila in altre zone della Cina.

Il governo cinese rivendica questa attività come positiva e finalizzata a sradicare la povertà dal Paese,  e ne rinnega l’elemento coercitivo. Eppure sono molte le somiglianze con il modello adottato nei confronti della popolazione musulmana, nel quale i campi di detenzione assomigliano a campi di concentramento, e l’annientamento culturale sembra essere l’unico obiettivo.

Ancora una volta, dunque, la Cina ci mette di fronte a verità spaventose quanto pericolose, nelle quali la cultura, la lingua e l’identità dell’individuo smettono di avere valore. Dove il valore storico della memoria, il significato identitario della religione vengono semplicemente ignorati per dare spazio all’efficienza. Dove la diversità non è una ricchezza ma una colpa, un danno a cui rimediare.

Sotto gli occhi di una comunità internazionale inebetita dalla imponente crescita economica del Paese, la Cina continua impunita a disintegrare culture, religioni, storia e libertà. Non importa che lo faccia usando la forza o rimpinzando grandi e piccini di dolciumi come una moderna strega di Hansel e Gretel, il metodo non rende il fine meno grave.

Sradicare la cultura di un popolo per imporne una diversa ricade ancora una volta nella definizione di “genocidio culturale” e noi, ancora una volta, non possiamo restare in silenzio.


 

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