Ebru Timtik e la misura della democrazia

 
 

La morte dell’avvocatessa turca impegnata nella tutela dei diritti umani ci ricorda che uno Stato che non protegge chi difende i diritti limita la sua democrazia.


È morta di protesta Ebru Timtik, l’avvocatessa turca di 42 anni scomparsa giovedì, dopo 238 giorni di digiuno, nel carcere di Istanbul. Come Helin Bolek e Ibrahim Gokcek, i due musicisti del gruppo Grup Yorum, vinti lo scorso maggio da un lungo sciopero della fame, Ebru Timtik ha dato la vita in nome di un giusto processo che, sebbene si annoveri tra i diritti fondamentali da riconoscere ad ogni uomo in quanto tale, anche nel suo caso, non è mai arrivato.

Accusata di legami con il Fronte rivoluzionario della liberazione popolare (DHKP/C), organizzazione di estrema sinistra considerata di matrice terroristica dal governo di Recep Tayyip Erdogan, nel 2018, mentre si trovava nel suo ufficio, era stata arrestata assieme a 17 suoi colleghi (tutti appartenenti all’Associazione degli Avvocati Progressisti) e condannata a 13 anni e 6 mesi di reclusione, senza che le venisse garantito il diritto di difesa.

La sua condanna è giunta sulla base di testimonianze anonime e contraddittorie, proiettate in aula di tribunale con voce contraffatta e facce oscurate. Nel corso del processo, i legali di parte non hanno avuto modo di conoscere né di interrogare i testimoni. Neppure è stata data loro la possibilità di pronunciare l’arringa difensiva. 

Il Consiglio Giudiziario turco, che dal tentato golpe del 2015 dipende direttamente dal Ministero della giustizia, ha rimosso i giudici che avevano inizialmente autorizzato la scarcerazione (per insufficienza di prove) degli avvocati imputati e li ha sostituiti con altri magistrati che hanno immediatamente revocato l’ordinanza.

Diverse associazioni di avvocati e lo stesso Consiglio difensivo internazionale hanno denunciato le anomalie procedurali del processo che ha coinvolto Timtik e i suoi colleghi. Quello contro gli avvocati turchi appare infatti l’ennesimo processo pilotato, a fronte di un sistema giudiziario nazionale sempre meno indipendente e fortemente “erdoganizzato”, che rischia di compromettere il diritto di difesa più di quanto già non lo sia.

In un’intervista a Il Manifesto, Fausto Giannelli, membro del Consiglio difensivo internazionale, ha segnalato che, in Turchia, i processi di massa contro gli avvocati, come quello che ha visto imputata Ebru Timtik, si profilano quali veri e propri “atti di terrorismo giudiziario”.  

«Non è una nostra deduzione», dice Giannelli, «è nelle motivazioni della sentenza di condanna: come se ci fosse concorso di reato, la corte cita le attività difensive di un numero “abnorme” di imputati di terrorismo e la frequenza “sopra la media” delle visite agli imputati, arrivando a considerare l’avvocato non neutro ma “organico” al reato».

Gli avvocati turchi, che vengono arrestati e arbitrariamente condannati, sono colpevoli semplicemente di aver esercitato la propria professione, difendendo i diritti umani degli oppositori politici e delle vittime di violenza e di tortura. Contro gli avvocati, il regime sta adottando una sorta di “strategia della paura” per cui, per il tramite di processi “farsa”, si intimoriscono i colleghi e, in uno spaventoso effetto domino, si colpiscono gli oppositori del regime che, senza l’assistenza di un legale, vedono limitarsi il loro diritto alla difesa.

Se all’interno di uno Stato gli avvocati chiamati a difendere i diritti degli uomini si rifiutano di farlo per timore di essere perseguitati e condannati, però, ad essere in pericolo non è solo il diritto di difesa ma l’intero assetto democratico. Con il suo corpo, Ebru Timtik ci ha ricordato che la misura della democrazia di uno Stato passa attraverso la salvaguardia ed il rispetto dei diritti e delle libertà dei suoi cittadini.

Se uno Stato non tutela i diritti degli individui, ragionevolmente non può dirsi democratico; se non tutela chi difende i diritti, deve impegnarsi in maniera seria e credibile per garantirne la libertà, l’imparzialità e l’indipendenza. Per questo, Ebru Timtik ha combattuto: per rivendicare la tutela dei diritti di ogni uomo.

Lo ha fatto per sé e per i suoi colleghi, che dal carcere continuano ora la sua protesta. Lo ha fatto per i suoi compagni che, anche contro le intimidazioni della polizia, si stanno riversando nelle strade di Istanbul per condannare il regime. Lo ha fatto per tutti noi che, mentre ci sentiamo un po’ più poveri, impariamo da lei a “tenerci stretti” i diritti e a lottare per esercitarli senza costrizioni.