Jojo Rabbit: una favola «nera» che ridicolizza il nazismo

Johannes Betzler è un bambino di dieci anni che fa parte della gioventù hitleriana, figlio di quella generazione di giovani cresciuti a pane e Adolf, in un periodo in cui l’aggettivo “fanatico” aveva assunto una inquietante connotazione positiva; ma Jojo, così lo chiamano tutti, non è un bambino come gli altri, perché il suo amico immaginario non è un orsacchiotto di nome Spike, bensì è proprio il Fuhrer, il suo idolo coi baffetti. Lui gli parla, gli chiede consigli, si fa ispirare dai suoi suggerimenti che influenzano inevitabilmente il suo modo di essere e di pensare.

Per una serie di sfortunati eventi (e per una scarsa attenzione da parte del suo maestro nel campo di addestramento, l’indolente Capitano Klenzendorf, interpretato da Sam Rockwell), Jojo si ritrova sfregiato per lo scoppio di una granata, che maneggia con poca cura e che gli esplode a pochi centimetri.

Jojo diventa in un attimo “lo storpio”, peggio di un quadro di Picasso: l’unica a non prendersi gioco di lui è sua madre Rosie (Scarlett Johansonn candidata all’Oscar per questo ruolo, oltre che per quello in Marriage story), donna caparbia e intelligente, per la quale il piccolo Jojo stravede, ma dalla quale riceverà una delle delusioni più grandi della sua vita quando scoprirà che nasconde in casa Elsa, una ragazzina ebrea. Sarà proprio a questo punto che inizierà il dissidio interiore di Jojo, ma anche la sua crescita: un piccolo nazista che si ritrova in casa una ragazzina ebrea, che non può neanche denunciare perché ciò metterebbe in pericolo lui stesso, ma soprattutto sua madre Rosie.

Jojo per la prima volta vede coi suoi occhi un ebreo, e si accorge che quello che gli hanno da sempre inculcato non ha alcuna corrispondenza con la realtà: «Ma voi cosa mangiate?», «E dove sono le tue corna?» sono solo alcune delle assurde domande che fa con timore e insistente curiosità a Elsa. Elsa, per evitare di essere scoperta, fingerà di essere Inge, la sorella maggiore di Jojo morta poco tempo prima; Elsa ormai sola al mondo, spaventata, senza speranza, riesce ancora a credere alle lettere immaginarie mandate dal suo fidanzato Nathan, scritte in realtà dall’ingenuo Jojo.

È convinta che le donne possano fare tutto, «anche guardare una tigre negli occhi», come le dice Rosie. Sarà proprio lei a far provare per la prima volta le “farfalle nello stomaco” al suo piccolo amico .

Il tema del “doppio” – o meglio, della maschera – caratterizza tutto il film: oltre che nei continui riferimenti allo specchio, lo troviamo non solo nello stesso Jojo, spaccato tra le sue convinzioni naziste e i sentimenti verso una ragazza ebrea; ma anche in Elsa, quando in un gesto folle recita la parte di Inge, rinnegando se stessa per salvarsi; lo troviamo in Rosie, quando si dipinge una finta barba in faccia e si cambia la voce fingendosi il padre di Jojo (superlativa Johansson in questa scena).

Ma si può riscontrare anche nel Capitano Klenzendorf, in bilico tra l’ideologia nazista e una presunta omosessualità, lasciata intendere tra le righe nei pochi secondi di una scena. Tutti sono parte, in un modo o in un altro, di una minoranza, quei diversi che il nazismo temeva e su cui ha fondato la propria politica d’odio razzista: Jojo è uno storpio, Elsa è un’ebrea, il Capitano è (probabilmente) gay, Rosie è una donna senza marito.

È come se fossero tutti dei conigli, altro leit motiv che attraversa la pellicola: rabbit è il soprannome di Jojo, in riferimento al suo (presunto) poco sangue freddo, poiché non riesce a uccidere un coniglietto durante la sua permanenza nel campo di addestramento – ma del resto, non lo fa neppure quando sta morendo di fame, in piena guerra; “coniglio” è l’esempio utilizzato da Rosie per insegnare a suo figlio come fare i lacci delle scarpe, quei lacci che Jojo fingeva di non saper fare, ma che poi farà lui stesso a Elsa; e in ultimo, il coniglio e la gabbia, disegnati dalla ragazzina ebrea nel fantomatico libro “Yooho Jew” dove Jojo raccoglieva tutte le pseudo informazioni sul popolo semita, deridendolo.

In questa favola nera di Taika Waititi, regista e interprete egli stesso di Hitler, ambientata in una immaginaria e fin troppo colorata città della Germania, i cattivi sono ridicoli e stupidi, come in tutte le favole: gli agenti della Gestapo sembrano viscidi vermi curvi e invertebrati, privi di spina dorsale, in tutti i sensi, che non fanno altro che ripetere meccanicamente «Heil Hitler» (in una scena addirittura 31 volte!), come se fosse una formula magica, o un lavaggio del cervello, quello stesso lavaggio del cervello che spinge un bambino di 10 anni a indossare con orgoglio la divisa della Jungvolk hitleriana e a definirsi un nazista.

Non è facile raccontare il dolore con ironia senza risultare superficiali, soprattutto se si descrive un periodo storico come quello del nazismo e dell’Olocausto, in cui il “male assoluto” sembrava essersi impossessato del mondo, una follia dilagante nell’indifferenza più totale. Waititi lo fa con eleganza e raffinatezza, provocando sorrisi amari attraverso gli occhi di un bambino, raccontando la sua crescita e la scoperta dell’amore, con tutto ciò che ne consegue.

Perché l’amore fa paura, e restare soli ancora di più: lo sa bene Jojo quando mente spudoratamente a Elsa dicendo che la guerra l’hanno vinta i tedeschi, pur di tenerla chiusa per sempre tra le mura della sua casa; ma amare è lasciare liberi, liberi anche di lasciare andare la persona che si ama, e quindi alla fine la verità viene fuori, in una calda giornata di sole, con Heroes di David Bowie in sottofondo. «E adesso, che si fa?»: si balla, ovviamente. Insieme.