Guerra in Libia: Erdogan scende in campo e l’Europa sta a guardare

L’anno nuovo si è aperto con un clima esplosivo in Medio Oriente. Non solo l’uccisione di Qasem Soleimani, ma anche l’escalation del conflitto in Libia rendono lo scenario internazionale davvero imprevedibile e complesso.

Per districarsi nel risiko in atto sul terreno libico partiamo dagli eventi che hanno caratterizzato le ultime settimane. A fine novembre la Turchia firma due importanti accordi con il governo di Fayez Al Sarraj: il primo riguarda i confini marittimi della Libia; il secondo, invece, prevede forme di cooperazione militare e una rapida reazione militare di Ankara su richiesta di Tripoli. Entrambi hanno messo in allarme l’Europa e le altre potenze regionali per motivi diversi, che vedremo tra poco.

Il 2 gennaio il parlamento turco approva la mozione che dà il via libera al dispiegamento per un anno di militari turchi in Libia a sostegno del Governo di Accordo Nazionale guidato da Al-Sarraj. Nel frattempo, sul fronte opposto non si sta certo a guardare. L’autoproclamato Esercito nazionale libico, comandato dal generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, riprende l’offensiva per la conquista di Tripoli.

Il generale libico Khalifa Haftar

Solo di qualche giorno fa è il duplice attacco contro la base aerea di Maitiga, unico aeroporto operativo nella capitale libica, e contro l’accademia militare di Tripoli che ha fatto 28 vittime. Il governo di Tripoli accusa l’esercito di Haftar che in un primo momento rivendica il bombardamento per poi smentire e attribuirne la responsabilità ai combattenti dell’Isis.

Ma il clima ormai è davvero incandescente. Il maresciallo Haftar ha chiamato la popolazione alla «mobilitazione generale» e alla «jihad» contro un eventuale intervento militare della Turchia in Libia. E l’incontro che si sarebbe dovuto tenere il 7 gennaio a Tripoli tra la delegazione europea guidata dall’Alto rappresentante Ue, Josep Borrell, dai ministri degli Esteri di Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia e da Al Sarraj, per cercare una mediazione al conflitto, è saltata proprio per questioni di sicurezza, almeno ufficialmente.

La Libia – proprio come la Siria – è ormai in procinto di diventare il nuovo terreno di scontro su diversi livelli. Non più solo interno e locale tra le fazioni che dalla caduta di Gheddafi si contrappongono, ma anche regionale con la discesa in campo di diversi players che per ragioni politiche, energetiche, strategiche, svolgono sul terreno libico una guerra per procura con l’invio di armi, in barba all’embargo voluto dall’ONU.

Dal un lato abbiamo il governo di Tripoli, riconosciuto dalla comunità internazionale e appoggiato dal Qatar e dalla Turchia, dall’altra parte il maresciallo Haftar, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, dall’Arabia Saudita e dall’Egitto e sottobanco anche da Francia e Russia.

L’ingresso a gamba tesa di Erdogan nella faccenda libica ha delle ragioni ben precise. Per comprenderle dobbiamo fare un passo indietro e tornare agli accordi di novembre e in particolare a quello che ridefinisce i nuovi confini marittimi con la Libia creando una zona economica esclusiva tra Libia e Turchia con il quale viene data la possibilità di esplorare ed estrarre gas e petrolio in quella parte di Mediterraneo Orientale ai due paesi.

Tale accordo è apertamente in contrasto con le pretese di altri stati come Cipro e Grecia sull’estrazione di idrocarburi rendendo oltretutto più complessa la realizzazione di un gasdotto sottomarino lungo 1.900 chilometri che porterà il gas dal Mediterraneo orientale all’Europa, un’opera in cui sono coinvolti Egitto, Israele, Cipro e Grecia e dalla quale la Turchia era stata tagliata fuori. Ankara, ha voluto ribadire la sua intenzione di non farsi mettere all’angolo nella corsa energetica e per fare ciò è disposta anche a sostenere militarmente la Libia.

Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan

E mentre il conflitto si inasprisce l’Europa continua ad essere praticamente ininfluente. Le divisioni interne, in particolare tra l’Italia che sostiene da sempre il governo di accordo nazionale e la Francia che ufficialmente si allinea alle posizioni della comunità internazionale ma che nei fatti preferisce – non lo nasconde neanche troppo – Haftar, hanno fatto adottare all’Europa una posizione attendista che non le ha per niente giovato.

L’Italia e la sua politica estera praticamente inesistente (va detto, da ben prima che Luigi Di Maio diventasse Ministro degli Esteri) hanno lasciato che il ruolo che doveva in teoria doveva rivestire, per interessi economici, per il passato che lo lega alla Libia, per la posizione geografica e le conseguenze anche in termini di flussi migratori che ne derivano, venisse occupato da un paese come la Turchia ben più spregiudicato nello schierarsi; ma anche dalla Russia, che pur mantenendo fino ad ora rapporti con entrambe le fazioni, invia già da mesi a supporto del generale della Cirenaica formazioni paramilitari straniere, tra cui il Wagner Group, considerato vicino a Vladimir Putin.

L’obiettivo comune per entrambi i paesi, pur trovandosi in questo caso su fronti diversi, è quello di rendere sempre più marginali nello scacchiere mediorientale le potenze occidentali. C’è da scommettere che l’8 gennaio per l’inaugurazione del TurkStream, il nuovo gasdotto russo turco, la Libia sarà uno dei principali dossier da affrontare per Erdogan e Putin. E sarà interessante anche per Al Sarraj, che invitando la delegazione europea a non venire in Libia per motivi di sicurezza ha anche fatto capire a chi ormai guarda Tripoli per sopravvivere allo scontro con Haftar.

La conferenza di Berlino, voluta dal governo tedesco sotto l’egida dell’Onu, che dovrebbe svolgersi alla fine del mese di gennaio e dovrebbe avere come obiettivo il cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati di pace rischia di arrivare fuori tempo massimo. Che sia già passato il treno per l’Europa e per l’Italia?