I nuovi dati sull’occupazione e i giovani laureati

Di Ugo Lombardo – In Italia appena il 59,8% dei “colletti bianchi” lavora a tre anni dal titolo, quasi sei laureati su dieci, ma questo dato, anche se in crescita, sottolinea come nel nostro Paese oltre il 40% dei giovani che si laureano non trova (o non cerca nemmeno) lavoro nei tre anni che seguono la laurea.

Nello specifico, le statistiche Eurostat descrivono un quadro per cui l’Italia risulta il Paese con il peggiore risultato dopo la Grecia rispetto ad altri Paesi, come la Repubblica Ceca, la Germania, i Paesi Bassi, l’Austria e la Svezia, dove si viaggia intorno al 90%. Fra le quattro aree del vecchio continente in cui solo meno di un terzo dei laureati lavorano, inoltre, tre di queste sono al Sud Italia: Sicilia (27%), Basilicata e Calabria (entrambi al 31%), mentre la quarta è una regione nella Grecia centrale.

Nello specifico, la percentuale in media europea dei 28 Paesi di persone tra i 30 e i 34 anni in possesso di un titolo di studio terziario che ha un lavoro a distanza di tre anni dal titolo, escludendo coloro che sono impegnati in nuovi percorsi di formazione (master, dottorato o ulteriori lauree) è dell’85,5%. A differenza di Olanda e Germania, che superano il 94%, l’Italia si posiziona al penultimo posto, con un preoccupante 62,8 per cento. Tale situazione dipende da vari fattori: innanzitutto, la debolezza strutturale dell’occupazione italiana con tassi di occupazione che mai hanno superato il 59%, unitamente all’elevata percentuale di lavoro irregolare, e questo in parte potrebbe spiegare la distanza dagli altri Paesi europei.

In verità, il cuore della problematica è da ricercare nel duplice aspetto, cioè la struttura produttiva del nostro Paese da un lato e, dall’altro, i percorsi universitari spesso distanti dalle richieste del mercato del lavoro. Questo porta a sostenere che se abbiamo pochi laureati che non trovano lavoro c’è o un problema di qualità della domanda o uno di qualità dell’offerta, o forse di entrambi. Anche il dualismo strutturale delle imprese italiane, sia dimensionale che territoriale, che si traduce nei livelli di innovazione e, quindi, di competenze ricercate sul mercato incide profondamente nel determinare la domanda di lavoro. Non basta, infatti, formare un laureato per generare un posto di lavoro, soprattutto se università e mondo dell’impresa vivono in dimensioni parallele. Con questo si spiega il fenomeno paradossale per cui vi è la presenza di lavoratori sovra-qualificati che si trovano a svolgere mansioni inferiori rispetto alle competenze di cui il mercato ha bisogno.

Questo permette di far entrare in scena un ulteriore aspetto che dovrebbe spingere alla riflessione, cioè il tema della formazione e delle competenze, sia dei giovani che degli adulti, che è alla base dei rapporti tra mondo della formazione e mondo del lavoro. Questi argomenti sono, però, distanti dal dibattito pubblico, senza considerare il fatto che c’è una grande difficoltà delle università a rimodellare i corsi di laurea, rendendoli rispondenti alle esigenze del lavoro di oggi.

Allo stesso tempo non significa affatto allineare tali corsi alle esigenze del mercato o delle imprese, ma semplicemente rinnovare la didattica e l’integrazione con la realtà al di fuori delle aule, per formare tutte quelle competenze trasversali che contano di più di quelle specialistiche, soprattutto in un panorama dove la tentazione potrebbe essere quella di mettere una pietra sopra le lauree umanistiche, spingendo per le cosiddette materie Stem (Science, Technology, Engineering and Mathematics).

Il rischio potrebbe essere quello di impoverire il mercato del lavoro italiano e privarlo di profili che possono portare proprio a quell’innovazione che, a volte, i tecnici applicano senza progettarla. La condizione, però, è davvero quella di smontare la struttura verticale degli atenei, far dialogare discipline diverse, creare ponti tra le scienze sociali, le materie scientifiche e quelle umanistiche, come da tempo accade nelle università anglosassoni.

Di fondamentale importanza, in conclusione, è l’aspetto per cui è necessario, soprattutto per i giovani, creare un percorso formativo e professionale idoneo che li indirizzi sempre di più verso la propria indipendenza economica. In questa direzione si muove il Rapporto 2019 sul Divario Generazionale e il reddito di opportunità, a cura della Fondazione Bruno Visentini, che sarà presentato alla Luiss il prossimo 5 dicembre.

Tale rapporto, oltre a mettere a confronto le misure generazionali della Legge di Bilancio 2018 con quelle varate nella successiva, traccia un primo percorso di rientro dell’Indice del Divario Generazionale ai livelli pre-crisi, stimando l’impatto in tal senso dell’introduzione del reddito di opportunità, o la ridefinizione del reddito di cittadinanza e della Garanzia Giovani. Per la prima volta, inoltre, sarà presentato anche un indice territorializzato per macroregioni, al fine di mettere l’accento sull’emergente e ulteriore divario generazionale dei giovani del Sud. Una sorta di spread tra le opportunità offerte a un giovane del Nord rispetto a quelle offerta a un giovane del Mezzogiorno. Sul tavolo anche la questione ambientale, per la quale, quantomeno, i nostri giovani cominciano ad avere piena consapevolezza. Sarebbe assurdo immaginare come, dopo tanti sforzi, i giovani trovino, finalmente oltrepassato il muro del divario generazionale, un paesaggio inospitale ad attenderli.