La morte non è roba da stadio

Di Maddalena Tomassini – Non ci attenderemmo che un medico constati il decesso di una persona fischiando tre volte. Insomma, la morte non è roba da stadio. Eppure, più e più volte, il linguaggio scelto per affrontare il tema del fine vita è quello delle tifoserie: fazioni rigidamente opposte che si urlano addosso, sacrificando le sfumature, varie, dolorose e complesse, che colorano questo delicato argomento.

Ciò accade ogni qual volta un caso esce dall’ospedale e raggiunge i tribunali, passando per i media. Il dibattito si accende, la persona viene spogliata dalle proprie carni per diventare un simbolo conteso fra gruppi che cercano di coprirlo completamente con il proprio stendardo. Il tutto mentre sullo sfondo si consuma un dramma familiare. Il caso di Vincent Lambert, che nei mesi scorsi ha riacceso il dibattito, non è diverso.

Vincent Lambert, da Nord Eclair

Contesto, contesto, contesto. In pochi casi come quelli che riguardano il fine vita è necessario avere ben chiaro tutti i fattori in gioco per poter cominciare a formare un’opinione che non può, e non deve, comprendere assoluti. Inoltre, è necessario capire il lessico relativo al “fine vita” per non cadere in facili equivoci.

Bisogna chiarire da subito la differenza fra eutanasia passiva e attiva: nel primo caso, il medico interrompe le terapie che tengono in vita il malato in stadio terminale, nel secondo ne causa volontariamente la morte. La stessa Chiesa Cattolica ha una posizione relativamente “morbida” sul primo caso.

Secondo l’articolo 2278 del Catechismo, infatti, «l’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire».

Ben altra questione è il suicidio assistito, in cui è lo stesso paziente a compiere materialmente l’atto. Con cure palliative parliamo di trattamenti mirati ad alleviare le sofferenze di un paziente terminale, inclusa la sedazione profonda, mentre con testamento biologico parliamo di un documento redatto nel pieno delle facoltà mentali per regolare cosa deve avvenire nel caso queste ultime vengano a mancare.

Cosa prevede il diritto francese sul fine vita? La Loi Claeys-Léonetti dal 2016 – che succede alla Léonetti del 2005 – pur vietando l’eutanasia e il suicidio assistito, prevede la possibilità di interrompere le terapie in caso di accanimento terapeutico, ivi inclusi i trattamenti nutrizionali, accompagnando l’interruzione a una sedazione profonda e continua.

La legge, quando viene applicata, esce dalla carta e si cala nella realtà. In questo caso, nella realtà di Vincent Lambert. Infermiere, nel 2008 ha un tragico incidente stradale che lo lascia tetraplegico. Al tempo ha 32 anni, ed è in uno stato di coscienza minima. Con il procedere dei mesi, e degli anni, la sua condizione non dà margini di ripresa – al contrario, entra in uno stato vegetativo cronico.

Nell’aprile del 2013 l’ospedale dove è ricoverato a Reims avvia la prima procedura di interruzione della terapia – inclusi nutrimento e idratazione artificiale. È l’inizio della battaglia giuridica, che spacca la famiglia a metà: da un lato la moglie, sostenuta da sei fratelli e sorelle, dall’altro i genitori e due fratelli.

Rachel insiste che Vincent non avrebbe mai voluto vivere come un vegetale, ma non ha documenti da impugnare. I genitori sostengono che Vincent non è alla fine della sua vita, ma colpito da una grave disabilità. Il tempo e i giudici danno ragione a Rachel. Il 3 luglio le terapie vengono interrotte, Vincent viene accompagnato in sedazione profonda e continua alla sua morte, che avviene l’11 luglio.

Viviane Lambert, madre di Vincent alla Corte europea dei diritti dell’uomo

La vicenda umana di Vincent Lambert è conclusa, ma il suo nome continuerà ad apparire ogni volta che si parlerà di fine vita. E spesso la sua storia verrà letta, tradotta e interpretata da una o l’altra parte per farla aderire alla propria posizione.

Di certo, non si può dire che questi mesi articolisti e improvvisati opinionisti abbiano dato il giusto spessore alle parole. Basti pensare a titoli sulla falsa riga di “Vincent è stato condannato a morte per fame e sete”, che evocano l’immagine del medico “assassino” che lascia morire il paziente in agonia: sbagliata, in ogni senso del termine.

Quello che si può cogliere dal caso Lambert, forse, è che il minimo indispensabile che la legge è chiamata ad assicurare – e a parer di chi scrive, promuovere – è il testamento biologico: è assicurare che i cari di un paziente non siano chiamati a prendere una decisione delicata, che li tocca profondamente. La morte è parte della vita, oltre che sua inevitabile conclusione, e non può essere ignorata.

Del fine vita se ne può e se ne deve parlare: è tassativo che la medicina abbia a disposizione strumenti – inclusi quelli legali – adeguati ad accompagnare i pazienti in tutte le fasi della malattia. Il fine vita necessita di essere affrontato con cautela, serietà e lucida empatia, senza imporre tabù. Stiamo parlando di vita e di morte, non di calci di rigore.


Immagine in copertina da AFP